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Tematiche Psicologiche Varie

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Non sempre le persone che hanno vissuto delle esperienze traumatiche riescono a parlarne, soprattutto quando riguardano traumi relazionali (traumi avvenuti nelle relazioni con gli altri: genitori, amici, insegnanti ecc). Questo può portare la persona a decidere di non cominciare un percorso psicoterapeutico, perché teme che raccontando quegli eventi sarà soverchiata emotivamente, ovvero che le emozioni che riproverà durante il racconto siano per lei emotivamente insopportabili.

La Flash Technique (FT) permette di lavorare sugli episodi traumatici senza doverli raccontare. Vediamo insieme come sia possibile.

Quali esperienze sono traumatiche?

Sono traumatiche tutte quelle esperienze che comportano uno stress emotivo importante, al punto che la mente non riesce ad usare le sue innate capacità di auto guarigione per superarle.

Ne sono un esempio quegli eventi che provocano una veloce e forte attivazione emotiva (come un incidente, una comunicazione drammatica e inaspettata), o quegli eventi che stressano la mente perché si ripetono nel tempo (ne sono un esempio gli eventi che portano a dire “piove sempre sul bagnato”, “non faccio in tempo a rialzarmi, che mi succede qualcos’altro”), o ancora eventi dove si viene isolati e/o umiliati.

Cosa succede quando si vive un trauma?

Dipende dall’età e dalle risorse personali con cui si può fare fronte all’evento.

Va da sé che più si è piccoli, più le esperienze significativamente negative possono trasformarsi in traumi, soprattutto se avvengono con figure di riferimento significative, o se gli adulti intorno non riescono a supportarmi.

Quando si vive un trauma, si ha una forte attivazione emotiva caratterizzata da iperarousal, che non sempre viene manifestata con comportamenti espliciti.

Questa attivazione porta la mente ad attivarsi per difendersi. Talvolta lo fa frammentandosi in parti in modo da mettere il ricordo in una parte di sé e mantenere un’altra parte sana, capace di rispondere alle richieste ambientali in modo adeguato.

Per questo motivo le memorie traumatiche sono frammentate.

Possiamo dire che un ricordo è traumatico se nel ricontattarlo abbiamo ancora un’attivazione emotiva disturbante.

Talvolta il ricordo non è più contattabile, ma ci accorgiamo della sua presenza perché la persona ha dei sintomi psicologici: ansia e/o tristezza che sembrano immotivate, rabbia poco controllabile, difficoltà relazionali o sessuali, sintomi somatoformi … (ovviamente questi sintomi non indicano certamente che c’è stato un trauma, ma possono essere un indizio da esplorare).

Come si aiuta la mente ad superare un trauma?

Un’esperienza traumatica non si risolve da sola.

Facciamo un esempio. Io vado nel bosco, sentono un fruscio nei cespugli, vedo un lupo, mi spavento e scappo. La mia mente creerà una memoria in cui il fruscio dei cespugli è associato alla presenza del lupo. Tutte le volte che andrò nel bosco, e sentirò un fruscio fra i cespugli, proverò paura, anche se per le successive 999 volte il lupo non ci sarà.

Anche se farò per 999 volte l’esperienza del fruscio in assenza del lupo la mia mente mi farà provare paura, perché ha registrato quel rumore associato al lupo ed è importante per la mia sopravvivenza che io provi paura.

L’unico modo per non provare più paura è che l’emozione di tranquillità quando sento il fruscio fra i cespugli arrivi prima della paura.

Per fare ciò in psicoterapia si usa una tecnica psicoterapeutica chiamata EMDR (guarda questo breve video per conoscere questa tecnica).

Quando si utilizza questa tecnica durante l’evocazione del ricordo, si sperimenta contemporaneamente nel corpo una sensazione di inizio di rilassamento che permette alla mente di modificare il ricordo rielaborarlo.

Come si interviene quando la persona sente di non poter nemmeno rievocare il ricordo senza sentirsi sopraffatta dalle emozioni?

Come dicevo prima la mente non modifica le emozioni associate al ricordo perché hanno una funzione protettiva, benché l’evento sia passato, anche da molto tempo.

La mente ci protegge da esperienze simili.

Se la persona sente che non può rievocare il ricordo senza venire sopraffatta dalle emozioni bisogna far sì che la mente provi una emozione piacevole prima di quelle spiacevoli.

Perché ciò avvenga si utilizza una tecnica psicoterapeutica chiamata Flash Technique.

Come lavora la Flash Technique? In che modo è diversa dall’EMDR?

Entrambe queste tecniche utilizzano una stimolazione bilaterale alternata dei due emisferi celebrali, però quando si usa l’EMDR si entra pienamente nel ricordo (o frammento di esso) che viene narrato, mentre quando si usa la Flash Technique non è necessario.

Con la Flash Technique si dice che si porta la mente a contattare solo la periferia del ricordo in modo che non ci sia l’attivazione emotiva spiacevole.

Non è quindi necessario nemmeno raccontare al terapeuta di quale ricordo si tratti.

Come è possibile elaborare un ricordo senza parlarne?

Prima di tutto vengono scelti dei Focus Emotivi Piacevoli (FEP) di cui parlare al posto del ricordo.

Le FEP devono avere delle caratteristiche particolari:

  • devono essere emotivamente coinvolgenti
  • non riguardare persone coinvolte nell’evento o che possono elicitare emozioni spiacevoli
  • possono riguardare un animale  del proprio passato, o del presente
  • una persona
  • un’attività preferita
  • un periodo piacevole
  • una musica, o una canzone
  • una vacanza ecc

Dopo aver scelto la FEP il paziente valuta il livello di disturbo del ricordo target su cui si vuole lavorare. Il livello del disturbo viene chiesto solo se la persona vuole raccontare l’evento, se no non lo si chiede, perché il solo chiederlo può portare ad una attivazione disturbante.

L’assunto della FEP è quello di non attivare il paziente. Non vogliamo che i pazienti ci pensino in modo esplicito, è sufficiente che il ricordo passi nella memoria a breve termine quel tanto che basta per elaborarlo.

E’ sufficiente notarlo, per poi passare a parlare della FEP. Mentre terapeuta e paziente ne parlano si fa tapping (stimolazione bilaterale alternata) sulle ginocchia. Periodicamente il terapeuta dirà la parola Flash, quando il paziente la sente deve chiudere rapidamente gli occhi per tre volte. Si fa così per 4/5 volte. Successivamente si chiede al paziente se nota qualcosa di diverso.

Si prosegue così finché il ricordo target non disturba più.

Il cambiamento iniziale riportato più spesso è che il ricordo sembra più lontano, meno coinvolgente.

Come si procede se l’elaborazione si blocca?

L’elaborazione si può bloccare (il disturbo scende, ma poi si blocca e non scende più) quando:

  • la FEP non è abbastanza coinvolgente
  • la persona va lo troppo dentro il ricordo e quindi blocca il processo
  • quando la mente ha la necessità che l’elaborazione avvenga in modo consapevole

In questi casi si procede cambiando la FEP, o procedendo con l’EMDR standard.

Quali sono i meccanismi d’azione?

Philip Manfield ipotizzò che i meccanismi d’azione potessero dipendere da 3 fenomeni:

  1. un’elaborazione “non verbalizzabile” (subliminale) che elude le difese consce
  2. una modificazione del processo di riconsolidazione della memoria
  3. Lo sviluppo di un Io che osserva, anziché di un Io che rivive l’evento, come avviene quando si utilizza la Mindfulness

La Flash Technique previene l’attivazione dell’amigdala, che lavora in contrasto con la corteccia prefrontale. Quando l’amigdala è attiva la corteccia prefrontale (area associativa, che si occupa dell’elaborazione dei ricordi disturbanti) si inattiva e l’opposto.

Il battito di ciglia permette di ricontattare il ricordo in modo così rapito, da non riesporsi al trauma.

Quanto tempo impiega la mente ad elaborare un ricordo traumatico con l’EMDR e con la FT?

Va da sé che ogni persona ed ogni ricordo sono diversi.

Per mia esperienza personale il tempo minimo che la mente di un paziente ha impiegato per elaborare un ricordo disturbante con l’EMDR è stato di 20 minuti, mentre il tempo massimo è stato di 7 sedute.

Con la Flash Technique il tempo minimo è stato di circa 15 minuti e quello massimo di 45 minuti.

Si capisce che la FT può accorciare i tempi di elaborazione del trauma, ma che sono anche necessarie più FEP nel caso in cui si debba parlarne per 45 minuti.

Ci sono avvertenze particolari?

Sì, La Flash technique non è una bacchetta magica. Per essere efficace va utilizzata all’interno di un percorso psicoterapeutico.

Esempi di casi clinici.

Riporto qui brevemente 3 situazioni in cui ho utilizzato la FT.

  1. Una collega mi ha inviato una sua paziente, perché dopo un annetto di terapia le diceva che c’erano degli episodi che aveva vissuto con il padre, che avevano delle ricadute sulla sua vita attuale, ma di cui non riusciva assolutamente a parlare.

Per quando ci siamo viste la paziente aveva fatto mentalmente una lista di una decina di episodi di cui non riusciva a parlare e che la facevano tutti soffrire molto.

Siamo partite dal più antico e abbiamo proceduto in ordine cronologico sui primi 3 episodi, utilizzando come FEP i suoi animali domestici. Per portare il disturbo a zero, ogni ricordo ha richiesto circa 15 minuti, I successivi ricordi si sono depotenziati autonomamente e non è stato necessario lavorarci.

La paziente ha poi ripreso il lavoro terapeutico con la collega potendo lavorare sulle difficoltà del presente.

2 Dopo qualche anno dalla conclusione della terapia mi ha ricontattata un paziente. Abbiamo ripreso il lavoro psicoterapeutico su un evento accaduto di recente e il paziente ha poi riportato nuovamente alla mia attenzione la sua difficoltà a leggere ad alta voce in presenza di altre persone. Questa difficoltà lo penalizza nel lavoro.

Abbiamo deciso di affrontarla con la FT prima lavorando sul più antico ricordo target che aveva, e successivamente abbiamo lavorato sul presente depotenziando il disturbo che provava mentre leggeva ad alta voce davanti a me. Come FEP abbiamo utilizzato la sua passione per la pesca subacquea.

L’elaborazione ha richiesto una seduta. Successivamente il paziente ha riportato di riuscire a leggere davanti ai colleghi senza difficoltà, e di usare anche le vocine.

3 Sono stata contattata da una donna perché quando guida le viene un attacco di panico. Durante i primi colloqui conoscitivi, mentre mi racconta com’era la sua vita quando è cominciato il disturbo, piange molto. In quel periodo ha vissuto un lutto perinatale di cui quasi non riesce a parlare a causa dell’attivazione emotiva. Concordiamo di lavorarci con la FT.

In questo caso abbiamo lavorato usando lo schema classico dell’EMDR, cioè lavorando in sequenza sul passato, sul presente e sul futuro. Abbiamo cominciato con gli episodi legati al lutto, per poi passare al vicino anniversario della perdita e successivamente alla prossima volta che ne avrebbe parlato con il marito. Come FEP abbiamo utilizzato i viaggi che aveva fatto.

L’elaborazione ha richiesto 2 sedute. Al momento non ha più avuto attacchi di panico alla guida.

Leggi anche la concezione del perdono nelle 4 maggiori religioni

Nella letteratura psicosociale manca una definizione concorde di cosa sia il perdono, ma ci sono dei punti di comunione.

Chi non sa cosa sia il perdono pensa che perdonare significhi:

  • Fingere che non sia successo nulla,
  • Mettersi nella condizione di essere feriti di nuovo,
  • Permettere all’altro, o a noi stessi, di non assumersi le proprie responsabilità,
  • Riconciliarsi con chi ci ha fatto del male
  • Rinunciare alla funzione catartica della vendetta

Il perdono non è:

  • Condonare, scusare, o giustificare, ma riconoscere che quello che è stato fatto era sbagliato e non deve ripetersi,
  • Dimenticare. Il perdono non produce amnesia, ma può modificare il modo in cui si ricorda il passato,
  • Giustificare, o ritenere quell’atto legittimo,
  • Condonare un’azione che ha portato a danni misurabili,
  • Scusare un’azione, che ha portato ad effetti negativi di modesta entità,
  • Un obbligo, ma una scelta.

Esiste anche lo pseudo perdono, che avviene quando si perdona una cosa di poco conto, per esempio quando si dice “ti perdono” per dimostrare la propria superiorità morale.

Che cos’è il perdono? La definizione che mi piace di più è quella di Enright, lo scienziato che ha maggiormente studiato questo tema: “il perdono è un dono che si fa a qualcuno che non se lo merita”.

Il perdono è:

  •  essenzialmente un processo che modifica e trasforma la persona che lo intraprende,
  • esso non modifica ciò che è successo, ma modifica il modo di vedere la persona nonostante quello che ha fatto;
  • inoltre diminuisce o elimina i sentimenti, i pensieri  e i comportamenti  negativi verso l’offensore,
  • il perdono porta a sviluppare sentimenti, pensieri e comportamenti positivi verso l’offensore,
  • permette di superare la rabbia, l’ira o il rancore. Siccome rimanere adirati dà potere a chi offende e nega la libertà alla vittima,
  • permette di uscire dallo status di vittima.

Quale rabbia permette di superare? Quella non sana, che è quella che dura nel tempo per una grande ingiustizia, o per tante piccole offese; quella diretta verso una o più persone e non verso il caso, o le circostanze; quella causata da una reale ingiustizia; quella che porta a comportamenti auto lesivi; quella che influisce sulla salute psicofisica.

Possiamo quindi dire che il perdono è motivato congiuntamente da due scopi; uno egoistico, portare serenità dentro di sé, ed uno altruistico, sgravare l’aggressore dal suo debito.

Prima di vedere le fasi che si attraversano durante il processo del perdono, facciamo chiarezza comprendendo la differenza tra condonare, scusare, giustificare e perdonare.

Come abbiamo detto prima il dono è un’azione che sancisce una relazione sociale di scambio. Il dono aggiunge qualcosa all’altro, potremmo dire che in un certo senso dando all’altro qualcosa in più rispetto a quello che aveva, lo arricchiamo. Quando l’altro non può dare nulla in cambio si crea un debito che può essere condonato. Quando l’azione dell’altro crea un danno misurabile, essa può essere scusata, la si può giustificare, cioè capire come mai è stata fatta, ma non si ritiene quell’atto legittimo, l’altro ne è sempre responsabile e deve assumersene la responsabilità. Quando l’azione lesiva riguarda un danno non quantificabile a livello materiale, ma è un danno esistenziale, esso non è più scusabile. L’inscusabile è perdonabile. Scriveva Jankelevitch: “L’azione che non trova avvocati per difenderla ha bisogno del perdono”.

L’azione della scusa e del perdono seguono vie diverse. La scusa calcola, misura i danni subiti e determina l’azione di scusare. Il perdono non è un prodotto razionale, non è frutto di un calcolo, è gratuito. Si perdona l’inscusabile per questo suscita una reazione di scandalo e per questo è difficile.

Il perdono si colloca nel tempo: guarda al passato senza poterlo cancellare, ma può far sì che gli effetti dell’azione (del male subito) mutino, che non produca rancore e di conseguenza altro male. Il rancore è il prodotto della memoria. Il perdono lavora sul rancore, sulle emozioni, non sulla memoria. Il tempo può far dimenticare l’evento, ma non cura le emozioni, solo il perdono può farlo. Solo il perdono risolve la rabbia e la sofferenza, blocca la spirale di odio e vendetta e porta la pace.

Possiamo paragonare il male ad un seme, che spesso dà un frutto: la vendetta, che come ogni frutto produce un nuovo seme e rende senza fine il ciclo male-vendetta. Il perdono non ha la capacità di annullare il seme del male, tuttavia può far sì che non nasca da esso il frutto della vendetta e altro male.

La ricerca psicosociale sulla vendetta conferma quanto appena detto. La vendetta non porta benessere a chi la attua. La vendetta e la sua pianificazione hanno un effetto boomerang. Se l’attuazione della vendetta può portare a conseguenze negative come l’odio tra famiglie (si veda in Romeo e Giulietta di Shakespeare i, o le continue vendette tra famiglie mafiose), problemi sociali, conseguenze legali e penali ecc., la sua pianificazione non è da meno. Da un punto di vista psicologico la persona rischia di rimanere intrappolata nella ruminazione rabbiosa. La ruminazione è il continuo ritornare della mente sugli eventi. In questo caso sulla ingiustizia subita e sull’offensore. Tale attività mentale si autoalimenta inasprendo lo stato mentale di partenza. La persona si ritrova consumata dalla rabbia. La ruminazione rabbiosa ha effetti anche sul fisico, perché disturba la qualità del sonno, e aumenta i livelli di cortisolo.

Anche quando si riesce ad attuare la vendetta, le ricadute psicologiche non sono positive.

Secondo la visione comune e occidentale la vendetta ha una funzione catartica rispetto alla sofferenza che si prova in seguito ad un’ingiustizia. Tale posizione è stata ampliamente smentita dalla ricerca scientifica (Bushman 2002). Sfogare la propria rabbia attraverso la vendetta la esacerba, perché porta ad un aumento della ruminazione sull’offensore. Negli esperimenti chi aveva perdonato aveva smesso di pensare all’accaduto, mentre chi aveva avuto la possibilità di vendicarsi aveva continuato a pensarci e a soffrirne. Credevano, a questo punto erroneamente, che se non l’avessero fatto si sarebbero sentiti peggio.

Quanto scoperto dalla ricerca sulla vendetta viene descritto in un episodio della seconda stagione della serie Glitch dove Kirstie ha la possibilità di vendicare il suo stupro e la sua morte, ma mentre sta per attuare la vendetta sul suo aggressore si rende conto che non avrebbe avuto nessuna funzione catartica e vi rinuncia.

Se non perdonare, o vendicarsi non ha effetti positivi, quali effetti positivi ha il perdono?

La ricerca psicosociale su chi perdona ha evidenziato effetti positivi a livello fisico, psicologico e interpersonale. A livello psicologico si sono evidenziati la diminuzione, o scomparsa di sentimenti, pensieri e comportamenti negativi verso l’offensore, e al contrario sviluppa sentimenti, pensieri o comportamenti neutri, o positivi verso di lui. A livello fisico migliora la qualità della vita e del sonno, i livelli di cortisolo, la pressione arteriosa, il sistema immunitario.

Va bene, ora che abbiamo capito cos’è il perdono e cosa non è, che il perdono non si attua con la formula “io ti perdono”, ma che è un processo di cambiamento, gli effetti negativi che il mancato perdono può avere sulla mia e altrui vita e gli effetti positivi che ha perdonare, come faccio a perdonare?

Leggi anche le Fasi del perdono secondo il dottor Enright

Dr.ssa Luigina Pugno

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Il perdono come strumento psicoterapeutico è’ uno strumento laico, che riguarda ogni essere umano, ma che ha attraversato le grandi religioni monoteiste e quella buddhista, fino a rimanere segnato per secoli solamente nelle loro mappe.

La ricerca scientifica sul perdono è cominciata infatti solo alla fine del secolo scorso.

Prima di parlare di come si può usare il perdono come strumento terapeutico dobbiamo prenderci un po’ di tempo per vedere come il tema del perdono è visto dalle quattro religioni più diffuse, perché ci sarà utile per capire cosa è emerso dalla ricerca psicosociale.

Le concezioni religiose del perdono sono interessanti, perché favoriscono la comprensione dei vari aspetti del perdono in ambito psicosociale. Per cominciare le credenze religiose favoriscono una predisposizione al perdono, ma sono anche illuminanti, perché toccano gli aspetti cruciali e controversi che ritroviamo nelle nozioni psicosociali di perdono.

Ora prendiamo le mappe delle religioni e cominciamo a familiarizzare con il sentiero del perdono.

Cominciamo a percorrere il sentiero del Buddhismo. Sulla sua mappa non troviamo concretamente la parola perdono, ma esso si manifesta in molti concetti fondativi di questa religione, come la legge del Karma, il non attaccamento agli oggetti materiali e immateriali, e le virtù della tolleranza e della compassione. Secondo la legge del Karma il bene o il male che facciamo ci tornerà indietro in questa vita e in quelle successive, perciò bisogna astenersi dal compiere azioni lesive o dal nutrire emozioni e pensieri ostili anche se giustificati. Aiuta l’uomo in questo scopo la virtù della tolleranza, che consiste nell’accettare e sopportare ogni forma di sofferenza, anche quella causata da altri uomini. La non accettazione aggrava il proprio karma perché fa da precursore a comportamenti lesivi come la ritorsione e a sentimenti che affliggono come il risentimento. Rimanere attaccati alle offese subite, portandole nel nostro presente attraverso la ritorsione e la rabbia, accrescerà l’infelicità in questa vita e in quelle future. La tolleranza è quindi un atto egoistico volto a portare benessere nell’offeso. Oltre ad essa, aiuta l’uomo nel ridurre la sofferenza, la virtù della compassione. Tolleranza e compassione non coincidono con il perdono, ma lo includono. La compassione è rivolta alle sofferenze altrui e non alle proprie. Attraverso la compassione l’aggressore è visto come una persona sofferente, che ha commesso un’azione ingiusta e che ha bisogno di aiuto (Dharmapada v 5).

Ritroviamo la compassione buddhista verso l’aggressore nel sentiero del perdono quando per raggiungere questo obiettivo, la persona cambia la propria visione dell’aggressore attraverso l’empatia.

Ora davanti a noi il sentiero si divede in tre rami, quelli delle tre grandi religioni monoteiste: ebraismo, islamismo e cristianesimo, che più di altre hanno insistito sul tema del perdono.

In queste tre religioni i rapporti umani dovrebbero tendere a riprodurre la relazione ideale tra l’uomo e Dio, relazione in cui il perdono svolge un ruolo centrale. Anzi il perdono è il punto di partenza: come Dio perdona agli esseri umani le sue mancanze, così gli esseri umani dovrebbero perdonarsele reciprocamente. Come scrive l’evangelista Giovanni, Gesù disse “chi è senza peccato scagli la prima pietra” (GV 8,7), ma nemmeno Gesù la scagliò. Per ottenere il perdono di Dio, bisogna perdonare. Poiché ogni essere umano è fallibile,ma fatto a immagine di Dio, è degno di rispetto.

Sulla mappa dell’ebraismo troviamo l’indicazione che il perdono deve essere meritato ed è quindi condizionato dal fatto che l’offensore si redima. Se non mostra pentimento il perdono è sconsigliato, perché esporrebbe ad altri atti ingiusti. Dall’altra parte, ottenere un perdono immeritato può incoraggiare il comportamento ingiusto. Ma se l’offensore si mostra pentito la vittima ha l’obbligo di perdonare. Nella Torah se il pentimento è autentico il colpevole mostra pubblicamente la sua colpa e dichiara di non commetterla più. Anche la vittima è obbligata a mostrare esplicitamente che non nutre più risentimento.

L’importanza data alla manifestazione della colpa e del perdono mette in luce l’aspetto interpersonale del perdono.

La tradizione ebraica ritiene che il comportamento manifesto possa favorire un cambiamento interiore, che manifestare pentimento e perdono portino a pentirsi e perdonare anche nel proprio cuore.

Proseguendo sulla mappa islamica troviamo un altro importante tema legato al perdono: la vendetta. L’islam ritiene la vendetta un comportamento legittimo, a condizione che sia proporzionata al torto subito. Poiché è difficile quantificare un’ingiustizia e una vendetta equa, è preferibile il perdono. Inoltre il perdono rende la vittima magnanima e la fa somigliare a Dio (Corano 42, 40)..

La vendetta è invece un peccato in ebraismo e cristianesimo.

Islam e cristianesimo sono invece concordi nel ritenere il perdono incondizionato e quindi indipendente dal pentimento e dal risarcimento.

Sulla mappa cristiana il perdono occupa più spazio. E’ la religione che più ha insistito su questo tema. Nella preghiera del padre nostro è descritto nelle parole: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori (MT 6, 10-12). Lo stesso Gesù sulla croce prega Dio dicendo: “Perdona loro perché non sanno quello che fanno”.

Nel Vangelo la parola perdono è la traduzione della parola greca aphiemi che significa mettere in libertà. Il perdono libera dalla colpa e dalla sofferenza. Finché non si perdona si rimane legati alle catene dell’attaccamento.

Il Vangelo ci dà anche una indicazione di quante volte dovremmo perdonare (MT 18, 21-35) “In quel tempo Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: “Signore quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?” E Gesù gli rispose ”Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”.

L’unica misura del perdono è che è senza misura.

Ancora l’evangelista Matteo scrive “Sapete che è stato detto: ama i tuoi amici e odia i tuoi nemici. Ma io vi dico: amate anche i vostri nemici, pregate per quelli che vi perseguitano” (MT 5, 43-44). Questo significa non portare rancore, non alimentare pensieri e sentimenti ostili, ma anzi di pregare anche per chi ci fa del male.

Con il sentiero del Cristianesimo si ritorna su quello buddhista.

Tutte e tre le grandi religioni monoteiste fanno incrociare i loro sentieri in un punto: il tema della riconciliazione.

La riconciliazione non è una condizione per il perdono. Ci può essere perdono senza riconciliazione, ma il perdono precede sempre la riconciliazione genuina.

Sulle mappe religiose troviamo gli stessi tempi inerenti il perdono riscontrati nella ricerca psicosociale: compassione, relazione interpersonale, riconciliazione, libertà dalla sofferenza e vendetta.

Anche se il buddhismo e le grandi religioni monoteiste cominciano con un uomo, non solo la religione ci ha parlato del perdono, lo hanno fatto anche due uomini, che non hanno dato origine ad alcuna religione, ma che si sono battuti per la libertà, ed hanno utilizzato il perdono per mettere fine alla schiavitù e all’odio. Questi due uomini sono Gandhi e Mandela.

Gandhi ha detto: “I deboli non perdonano mai. Il perdono è l’attributo dei forti” e Mandela ha detto: “Il perdono libera l’anima, rimuove la paura. E’ per questo che il perdono è un’arma potente”.

Abbiamo camminato nella storia dell’etimologia e delle religioni. Sul sentiero del perdono abbiamo cominciato a confrontarci con altri importanti temi, che ora dobbiamo attraversare.

Se vuoi leggere com’è nato il perdono clicca qui

Cominciamo capendo cos’è e cosa non è il perdono.

Dr.ssa Luigina pugno

Lo studioso che più ci aiuta a percorre questo sentiero è Enright. Secondo lui il perdono si compone di alcune fasi.

Innazitutto per perdonare bisogna essere in quello che non avremmo dovuto vivere, dobbiamo riconoscere che quello che ci è stato fatto è un’ingiustizia e che non doveva essere compiuta.

Per poi passare a riconoscere gli effetti che quell’ingiustizia ha avuto su di noi, a livello concreto ed emotivo. Riconoscere le emozioni che si provano in seguito all’offesa, verso l’accaduto, verso l’offensore, verso altri e verso se stessi e riconoscere quante energie psichiche stiamo impiegando per far fronte all’offesa.

Si deve capire che le strategie di risoluzione precedentemente adottate non hanno funzionato e valutare se il perdono è un sentiero percorribile e se si, decidere di impegnarsi a perdonare l’offensore. Impegnarsi a perdonare implica mettere da parte ogni pretesa di vendetta, anche nelle sue forme più sottili (ad esempio parlar male dell’offensore)

A questo punto si lavora sull’accettazione della sofferenza e sulla trasformazione della rabbia.

Dopo essersi occupati di sé si comincia ad occuparsi dell’offensore lavorando sulla consapevolezza attraverso la conoscenza della sua storia e le forze che lo hanno fatto agire ingiustamente. Questo serve a vedere la persona oltre l’atto, a vedere la persona inserita in un contesto con una storia, a vedere la sua umanità. Se non riusciamo a vedere la sua umanità cadiamo nello stesso male.

Disse a tal proposito Martin Luther King jr:

“Questa reazione a catena del male – l’odio genera odio, guerre producono guerre – deve essere interrotta o ci ritroveremo immersi nell’abisso oscuro dell’annientamento. L’amore è l’unica forza capace di trasformare un nemico in amico. Per sua stessa natura, l’odio distrugge e abbatte; per sua stessa natura l’amore crea e costruisce”.

Quando si vede la persona e non solo il gesto, la sua storia, le sue motivazioni si passa a lavorare sulla compassione. L’empatia nasce quando le persone arrivano a comprendere gli altri, L’empatia può generare un senso di compassione per gli altri e per sé.

Ci si avvia verso la parte finale del sentiero e si rende necessario trovare un senso alla sofferenza, sia per sé sia per gli altri. Capire in che modo ci ha migliorati, ci ha aggiunto qualcosa. Forse ci ha reso più forti, più sensibili, più coraggiosi ecc.  Magari anche altri hanno ricevuto benefici dal nostro cambiamento.

Abbiamo detto che il perdono è un dono. Così quando i sentimenti si saranno trasformati, quando la sofferenza avrà lasciato il posto alla compassione, si comincerà a pensare di far qualcosa di positivo per l’altro. Senza quest’ultimo passaggio il perdono non è completo.

Dopo aver camminato anche su quest’ultimo tratto siamo pronti per perdonare.

Se vogliamo, oltre il perdono possiamo prendere anche delle decisioni,come comunicare o meno il perdono, riconciliarsi o meno con l’offensore.

Valutate le possibilità e le opportunità di queste decisioni, ognuno farà le sue scelte.

Siamo arrivati alla fine. Ora possiamo guardarci indietro. Vedere tutti i percorsi che abbiamo dovuto camminare per arrivare al traguardo del perdono. Per alcuni sarà stato come percorrere un sentiero semi conosciuto; per altri sarà stato come fare il pellegrinaggio di Compostela: lungo, ma fattibile; per altri ancora sarà stato come intraprendere il sentiero degli Appalachi senza allenamento e con le attrezzature tutte sbagliate. Per riuscire a camminare abbiamo usato le mappe e gli attrezzi dell’etimologia, della religione, della scienza, di un terapeuta e anche di chi ci circonda.

Rimane un’ultima riflessioni che puoi fare. Desiderando una vita migliore per te, per chi ami, magari hai già lavorato su di te per liberarti dalla sofferenza, ma da qualche parte la senti ancora lì, senti che non sei del tutto in pace. In questo caso, cosa ne diresti di prendere in considerazione il perdono?

Dr.ssa Luigina Pugno

Psicoterapeuta a torino

BIBLIOGRAFIA

Barcaccia B., Mancini F. Teoria e clinica del perdono, Raffaello cortina editore

Bertagni G. Il perdono nel cristianesimo e nel buddhismo

Bianchi E.Le vie della felicità. Gesù e le beatitudini

Boch B.  Il gioco del perdono Astrid editore

Dalai Lama La saggezza del perdono

Enright R. D. Il perdono è una scelta ed Salus

Jankelevitch V. Il perdono ed. IPL

King M. L. jr The strenght to love Fortress Press

Simeone M. N., Benedizione e perdono, autopubblicazione su Amazon

Worthington E., The power of forgiveness, ed Templeton Foundation Press Philadelphia London

Fonte: rosscupgraphic

Quando a fine gennaio vedevamo le immagini dalla Cina non riuscivamo ad empatizzare, assuefatti ai drammi, spettatori geograficamente lontani, straniati da qualcosa che non capivamo.

Da una parte una Cina in allarme, dall’altra l’OMS che tranquillizzava (così ho letto di recente).

Alcuni hanno attivato repentini comportamenti di protezione: raggiungere i familiari, svaligiare i supermercati e blindarsi in casa auto-prescrivendosi l’evitamento.

Ognuno sta rispondendo alla quarantena con il suo carattere: chi si incolla alla tv sovraesponendosi alle notizie e nutrendo l’ansia, chi si organizza lavoro/figli/tempo per sé, chi era abituato a muoversi comincia a patire le 4 mura, chi si trova di colpo tempo libero a lungo agoniato la prende come un’occasione per fare le cose che da tempo voleva fare. Il tutto a/da casa, chi ha cercato la vicinanza degli altri e chi si è isolato di più.

Le reazioni emotive sono le più disparate e le persone oscillano tra rabbia “dovevano fermarci prima”, paura “il signore in coda non aveva la mascherina”, paziente attesa “prima o poi passerà”, confusione “tamponi a tutti, no creiamo un vaccino, no  facciamo test anticorpali, no meglio cercare terapie…”.

Se prima affrontare una perdita, una malattia, la mancanza del lavoro era faticoso e destabilizzante, ma accadeva ad alcuni individui, che potevano essere sostenuti dagli altri, ora anche gli altri sono nella stessa situazione. Ma allo stesso tempo non ci si può aspettare che ci si senta uguali. Chi ha il cane, chi un genitore bisognoso lontano, chi fa un lavoro a rischio, chi in un mese ha perso tutto, chi ha o non ha un balcone.

La sfida è trovare un equilibrio tra l’appartenere alla collettività e la propria storia personale, tollerare la diversità e i bisogni del singolo.

Il covid-19 colpisce sistemi immunitari fisici diversi, sistemi immunitari psicologici diversi, sistemi economici diversi, sistemi governativi e sanitari diversi.

Cosa fare col proprio sistema immunitario psicologico? Come usarlo per rispondere alle richieste emotive?

Innanzitutto dobbiamo individuare quale emozione ci disturba e qual è la sua causa.

Se è la paura, di che cosa ho paura? Di ammalarmi? Di perdere il lavoro? Dell’isolamento?

Dobbiamo capire di che cosa abbiamo paura alla luce della nostra storia e della fase della vita in cui siamo.

Molte paure che vi verranno in mente c’erano già prima, ma ora sono amplificate.

Non dico che il covid-19 non sia la ragione della paura che accorcia il respiro e stringe la gola, dico che per affrontare i sentimenti dolorosi bisogna contestualizzarli nella storia di ognuno.

La preoccupazione che prova un genitore con figli piccoli, un adolescente, una coppia in quarantena o separata dalla quarantena, un anziano che ha imparato a fare le videochiamate per vedere i nipoti è diversa.

Tutti abbiamo un “sistema immunitario psicologico”. La nostra mente ha i suoi meccanismi di difesa. Chi ce li ha fragili sarà più soggetto a sviluppare ansia o depressione. Chi ce li aveva lì, lì per crollare potrà sviluppare un disturbo dell’adattamento. Chi ce li aveva funzionanti e flessibili continueranno a funzionare.

Poi ci sono quegli eventi che creano una frattura. Quelli che la mente non riesce ad elaborare, perché emotivamente troppo intensi. Eventi come una reale minaccia alla propria integrità fisica propria e di chi conosciamo (contrarre il virus, contrarlo e dover fare un ricovero), un lutto improvviso, l’impossibilità di vivere il cordoglio come si sarebbe fatto prima del covid-19. Eventi che aprono la strada al Disturbo post traumatico da stress.

Uno psicoterapeuta può aiutare il nostro sistema immunitario psicologico a funzionare meglio, o a riprendere a funzionare. Come? Utilizzando il colloquio, esercizi pratici, EMDR, ipnosi a seconda dei casi.

Ma se non senti la necessità di parlare con uno psicologo e desideri provare con il fai da te, ti consiglio il libricino della dottoressa Romagnoli, Covid-19: giorni di (stra)ordinario isolamento, edito da EPC, che ringrazio per gli spunti che mi ha dato per scrivere questo articolo.

Dr.ssa Luigina Pugno psicoterapeuta torino

t. 3288260495

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