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Non sempre le persone che hanno vissuto delle esperienze traumatiche riescono a parlarne, soprattutto quando riguardano traumi relazionali (traumi avvenuti nelle relazioni con gli altri: genitori, amici, insegnanti ecc). Questo può portare la persona a decidere di non cominciare un percorso psicoterapeutico, perché teme che raccontando quegli eventi sarà soverchiata emotivamente, ovvero che le emozioni che riproverà durante il racconto siano per lei emotivamente insopportabili.

La Flash Technique (FT) permette di lavorare sugli episodi traumatici senza doverli raccontare. Vediamo insieme come sia possibile.

Quali esperienze sono traumatiche?

Sono traumatiche tutte quelle esperienze che comportano uno stress emotivo importante, al punto che la mente non riesce ad usare le sue innate capacità di auto guarigione per superarle.

Ne sono un esempio quegli eventi che provocano una veloce e forte attivazione emotiva (come un incidente, una comunicazione drammatica e inaspettata), o quegli eventi che stressano la mente perché si ripetono nel tempo (ne sono un esempio gli eventi che portano a dire “piove sempre sul bagnato”, “non faccio in tempo a rialzarmi, che mi succede qualcos’altro”), o ancora eventi dove si viene isolati e/o umiliati.

Cosa succede quando si vive un trauma?

Dipende dall’età e dalle risorse personali con cui si può fare fronte all’evento.

Va da sé che più si è piccoli, più le esperienze significativamente negative possono trasformarsi in traumi, soprattutto se avvengono con figure di riferimento significative, o se gli adulti intorno non riescono a supportarmi.

Quando si vive un trauma, si ha una forte attivazione emotiva caratterizzata da iperarousal, che non sempre viene manifestata con comportamenti espliciti.

Questa attivazione porta la mente ad attivarsi per difendersi. Talvolta lo fa frammentandosi in parti in modo da mettere il ricordo in una parte di sé e mantenere un’altra parte sana, capace di rispondere alle richieste ambientali in modo adeguato.

Per questo motivo le memorie traumatiche sono frammentate.

Possiamo dire che un ricordo è traumatico se nel ricontattarlo abbiamo ancora un’attivazione emotiva disturbante.

Talvolta il ricordo non è più contattabile, ma ci accorgiamo della sua presenza perché la persona ha dei sintomi psicologici: ansia e/o tristezza che sembrano immotivate, rabbia poco controllabile, difficoltà relazionali o sessuali, sintomi somatoformi … (ovviamente questi sintomi non indicano certamente che c’è stato un trauma, ma possono essere un indizio da esplorare).

Come si aiuta la mente ad superare un trauma?

Un’esperienza traumatica non si risolve da sola.

Facciamo un esempio. Io vado nel bosco, sentono un fruscio nei cespugli, vedo un lupo, mi spavento e scappo. La mia mente creerà una memoria in cui il fruscio dei cespugli è associato alla presenza del lupo. Tutte le volte che andrò nel bosco, e sentirò un fruscio fra i cespugli, proverò paura, anche se per le successive 999 volte il lupo non ci sarà.

Anche se farò per 999 volte l’esperienza del fruscio in assenza del lupo la mia mente mi farà provare paura, perché ha registrato quel rumore associato al lupo ed è importante per la mia sopravvivenza che io provi paura.

L’unico modo per non provare più paura è che l’emozione di tranquillità quando sento il fruscio fra i cespugli arrivi prima della paura.

Per fare ciò in psicoterapia si usa una tecnica psicoterapeutica chiamata EMDR (guarda questo breve video per conoscere questa tecnica).

Quando si utilizza questa tecnica durante l’evocazione del ricordo, si sperimenta contemporaneamente nel corpo una sensazione di inizio di rilassamento che permette alla mente di modificare il ricordo rielaborarlo.

Come si interviene quando la persona sente di non poter nemmeno rievocare il ricordo senza sentirsi sopraffatta dalle emozioni?

Come dicevo prima la mente non modifica le emozioni associate al ricordo perché hanno una funzione protettiva, benché l’evento sia passato, anche da molto tempo.

La mente ci protegge da esperienze simili.

Se la persona sente che non può rievocare il ricordo senza venire sopraffatta dalle emozioni bisogna far sì che la mente provi una emozione piacevole prima di quelle spiacevoli.

Perché ciò avvenga si utilizza una tecnica psicoterapeutica chiamata Flash Technique.

Come lavora la Flash Technique? In che modo è diversa dall’EMDR?

Entrambe queste tecniche utilizzano una stimolazione bilaterale alternata dei due emisferi celebrali, però quando si usa l’EMDR si entra pienamente nel ricordo (o frammento di esso) che viene narrato, mentre quando si usa la Flash Technique non è necessario.

Con la Flash Technique si dice che si porta la mente a contattare solo la periferia del ricordo in modo che non ci sia l’attivazione emotiva spiacevole.

Non è quindi necessario nemmeno raccontare al terapeuta di quale ricordo si tratti.

Come è possibile elaborare un ricordo senza parlarne?

Prima di tutto vengono scelti dei Focus Emotivi Piacevoli (FEP) di cui parlare al posto del ricordo.

Le FEP devono avere delle caratteristiche particolari:

  • devono essere emotivamente coinvolgenti
  • non riguardare persone coinvolte nell’evento o che possono elicitare emozioni spiacevoli
  • possono riguardare un animale  del proprio passato, o del presente
  • una persona
  • un’attività preferita
  • un periodo piacevole
  • una musica, o una canzone
  • una vacanza ecc

Dopo aver scelto la FEP il paziente valuta il livello di disturbo del ricordo target su cui si vuole lavorare. Il livello del disturbo viene chiesto solo se la persona vuole raccontare l’evento, se no non lo si chiede, perché il solo chiederlo può portare ad una attivazione disturbante.

L’assunto della FEP è quello di non attivare il paziente. Non vogliamo che i pazienti ci pensino in modo esplicito, è sufficiente che il ricordo passi nella memoria a breve termine quel tanto che basta per elaborarlo.

E’ sufficiente notarlo, per poi passare a parlare della FEP. Mentre terapeuta e paziente ne parlano si fa tapping (stimolazione bilaterale alternata) sulle ginocchia. Periodicamente il terapeuta dirà la parola Flash, quando il paziente la sente deve chiudere rapidamente gli occhi per tre volte. Si fa così per 4/5 volte. Successivamente si chiede al paziente se nota qualcosa di diverso.

Si prosegue così finché il ricordo target non disturba più.

Il cambiamento iniziale riportato più spesso è che il ricordo sembra più lontano, meno coinvolgente.

Come si procede se l’elaborazione si blocca?

L’elaborazione si può bloccare (il disturbo scende, ma poi si blocca e non scende più) quando:

  • la FEP non è abbastanza coinvolgente
  • la persona va lo troppo dentro il ricordo e quindi blocca il processo
  • quando la mente ha la necessità che l’elaborazione avvenga in modo consapevole

In questi casi si procede cambiando la FEP, o procedendo con l’EMDR standard.

Quali sono i meccanismi d’azione?

Philip Manfield ipotizzò che i meccanismi d’azione potessero dipendere da 3 fenomeni:

  1. un’elaborazione “non verbalizzabile” (subliminale) che elude le difese consce
  2. una modificazione del processo di riconsolidazione della memoria
  3. Lo sviluppo di un Io che osserva, anziché di un Io che rivive l’evento, come avviene quando si utilizza la Mindfulness

La Flash Technique previene l’attivazione dell’amigdala, che lavora in contrasto con la corteccia prefrontale. Quando l’amigdala è attiva la corteccia prefrontale (area associativa, che si occupa dell’elaborazione dei ricordi disturbanti) si inattiva e l’opposto.

Il battito di ciglia permette di ricontattare il ricordo in modo così rapito, da non riesporsi al trauma.

Quanto tempo impiega la mente ad elaborare un ricordo traumatico con l’EMDR e con la FT?

Va da sé che ogni persona ed ogni ricordo sono diversi.

Per mia esperienza personale il tempo minimo che la mente di un paziente ha impiegato per elaborare un ricordo disturbante con l’EMDR è stato di 20 minuti, mentre il tempo massimo è stato di 7 sedute.

Con la Flash Technique il tempo minimo è stato di circa 15 minuti e quello massimo di 45 minuti.

Si capisce che la FT può accorciare i tempi di elaborazione del trauma, ma che sono anche necessarie più FEP nel caso in cui si debba parlarne per 45 minuti.

Ci sono avvertenze particolari?

Sì, La Flash technique non è una bacchetta magica. Per essere efficace va utilizzata all’interno di un percorso psicoterapeutico.

Esempi di casi clinici.

Riporto qui brevemente 3 situazioni in cui ho utilizzato la FT.

  1. Una collega mi ha inviato una sua paziente, perché dopo un annetto di terapia le diceva che c’erano degli episodi che aveva vissuto con il padre, che avevano delle ricadute sulla sua vita attuale, ma di cui non riusciva assolutamente a parlare.

Per quando ci siamo viste la paziente aveva fatto mentalmente una lista di una decina di episodi di cui non riusciva a parlare e che la facevano tutti soffrire molto.

Siamo partite dal più antico e abbiamo proceduto in ordine cronologico sui primi 3 episodi, utilizzando come FEP i suoi animali domestici. Per portare il disturbo a zero, ogni ricordo ha richiesto circa 15 minuti, I successivi ricordi si sono depotenziati autonomamente e non è stato necessario lavorarci.

La paziente ha poi ripreso il lavoro terapeutico con la collega potendo lavorare sulle difficoltà del presente.

2 Dopo qualche anno dalla conclusione della terapia mi ha ricontattata un paziente. Abbiamo ripreso il lavoro psicoterapeutico su un evento accaduto di recente e il paziente ha poi riportato nuovamente alla mia attenzione la sua difficoltà a leggere ad alta voce in presenza di altre persone. Questa difficoltà lo penalizza nel lavoro.

Abbiamo deciso di affrontarla con la FT prima lavorando sul più antico ricordo target che aveva, e successivamente abbiamo lavorato sul presente depotenziando il disturbo che provava mentre leggeva ad alta voce davanti a me. Come FEP abbiamo utilizzato la sua passione per la pesca subacquea.

L’elaborazione ha richiesto una seduta. Successivamente il paziente ha riportato di riuscire a leggere davanti ai colleghi senza difficoltà, e di usare anche le vocine.

3 Sono stata contattata da una donna perché quando guida le viene un attacco di panico. Durante i primi colloqui conoscitivi, mentre mi racconta com’era la sua vita quando è cominciato il disturbo, piange molto. In quel periodo ha vissuto un lutto perinatale di cui quasi non riesce a parlare a causa dell’attivazione emotiva. Concordiamo di lavorarci con la FT.

In questo caso abbiamo lavorato usando lo schema classico dell’EMDR, cioè lavorando in sequenza sul passato, sul presente e sul futuro. Abbiamo cominciato con gli episodi legati al lutto, per poi passare al vicino anniversario della perdita e successivamente alla prossima volta che ne avrebbe parlato con il marito. Come FEP abbiamo utilizzato i viaggi che aveva fatto.

L’elaborazione ha richiesto 2 sedute. Al momento non ha più avuto attacchi di panico alla guida.

Tutti quanti sentiamo la necessità di rilassarci e calmare l’ansia per motivi diversi: affrontare una prestazione in modo più tranquillo, favorire il sonno, godere della situazione senza venire distratti dall’emotività.

Innanzitutto va detto che è assolutamente normale agitarsi e provare ansia, o paura. La paura è un’emozione primaria importantissima per la sopravvivenza ed è quindi l’emozione che si prova più di frequente.

Viene innescata quando il cervello percepisce una situazione realmente, o potenzialmente pericolosa. Può essere una situazione che mette a rischio la nostra vita, la salute fisica, il corpo, le relazioni, ma può anche mettere a rischio aspetti di noi meno concreti come l’autostima, come veniamo percepiti dagli altri, ecc.

Spesso considerata un fastidio, qualcosa da eliminare, o da comprendere, l’ansia è in realtà una nostra alleata, perché ci dice che c’è qualcosa che non va bene per noi e ci permette, una volta individuata, di correggere il nostro comportamento e poter stare bene.

Le strategie per calmare l’ansia vengono organizzate in 3 categorie di livello chiamate Mastery.

La mastery di 1 livello comprende tutte quelle azioni che agiscono sul corpo per modificare a livello fisico la percezione dell’emozione.

La mastery di 2 livello comprende le azioni che agiscono sull’emozione attraverso il pensiero.

La mastery di 3 livello comprende ciò che può portare ad una maggiore conoscenza dell’emozione e del suo significato.

In questo articolo vi parlerò di 3+1 modi per utilizzare la mastery di primo livello.

Uno dei metodi più veloci per agire sulla percezione fisica dell’ansia è assumere dei farmaci.

Se non vogliamo assumere farmaci si può calmare l’ansia attraverso la respirazione. I metodi per farlo possono essere diversi, eccovi i 3 più diffusi.

Primo metodo: respirare lentamente in un sacchetto di carta. In questo modo diminuisce la concentrazione di ossigeno nel sangue e aumenta quella di anidride carbonica, che ha un effetto rilassante sulla muscolatura. E’ opportuno alternare la respirazione nel sacchetto, a quella normale. Per esempio respirando 1 minuto nel sacchetto e 1 minuto normalmente.

Perché funziona? Perché quando si va in ansia si tende a respirare velocemente inalando molto ossigeno, ma buttando fuori tutta l’anidride carbonica. In questo modo l’ossigeno non viene ceduto alle cellule presenti nell’emoglobina per carenza di anidride carbonica, questo porta alla sensazione di vertigini, testa vuota, confusione. Respirando nel sacchetto immetto più CO2, i muscoli si rilassano e l’ansia di calma.

Secondo metodo: la respirazione diaframmatica. Con questo tipo di respirazione riempio tutti i polmoni. Si fa respirando in modo opposto a quello naturale: quando inspiro riempio la pancia, trattengo per 2/3 secondi e quando espiro svuoto la pancia.

Perché funziona? Quando ci agitiamo cominciamo a respirare con la parte alta dei polmoni, inspirando sempre meno aria. Questo manda in allarme il cervello che pensa che ci sia poca aria da respirare, o che lo si stia facendo perché si sta scappando da un predatore. Questa respirazione “alta” è responsabile della sensazione di fame d’aria. Con la respirazione diaframmatica all’opposto, si respira con tutto il polmone. Il cervello capisce che non c’è un pericolo e calma l’ansia.

Terzo metodo: metodo della respirazione quadrata (Sama vritti pranayama). Consiste nel far durare le 4 fasi della respirazione lo stesso numero di secondi. Durante la fase in cui si trattiene il respiro non si deve provare fastidio quindi bisogna scegliere un numero di secondi che sia adeguato per noi. Ripetere l’esercizio per 10 volte e poi respirare normalmente.

Perché funziona? Questo tipo di respirazione regolarizza la presenta di ossigeno e anidride carbonica nel sangue. Inoltre la mente dovendosi focalizzare sul respiro e sul conteggio viene meno distratta dai pensieri ansiogeni e si calma.

Questi metodi agiscono solo sul respiro e quindi rientrano nella Mastery di 1 livello.

Un metodo molto efficace di rilassare il corpo e la mente e che rientra sia nella Mastery di 1 e 2 livello è il Training autogeno. Il training autogeno coinvolgendo sia il corpo, sia la mente ha un’efficacia maggiore rispetto ai metodi che agiscono solo sul corpo.

Il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) è un disturbo psicologico cronico, che può diventare invalidante ed interferire con le attività quotidiane, sociali e lavorative.

Benché chi ne soffre riconosca che i pensieri ossessivi e i comportamenti compulsivi provochino molta sofferenza e non riescono ad annullare lo scenario minacciato dalle ossessioni, continuano ad attuarli, perché se lo scenario si verificasse non potrebbero perdonarselo.

Nel DOC si riscontra la presenza di un senso ipertrofico di responsabilità, ma la colpa temuta da loro non è altruistica, ma deontologica.

Quali sono le caratteristiche del senso di colpa altruistico e deontologico?

Il senso di colpa si genera quando la persona riconosce di aver causato un danno ad un altro individuo, o trasgredito una norma morale. Ci sono però situazioni in cui non c’è una vittima, né una trasgressione morale, ma la persona si sente in colpa per l’esistenza dell’eventualità che possa fare un danno (ad es. contaminare un oggetto), o compiere un atto immorale (ad es. bestemmiare).

Il senso di colpa altruistico parte dal presupposto che con il proprio comportamento è stato compromesso un proprio scopo altruistico e che lo si sarebbe potuto evitare agendo diversamente.

Uno scopo altruistico ha come fine il bene dell’altro sia in senso oggettivo (non arrecare danno), sia soggettivo (non far soffrire), questo bene è rivolto non tanto ad un altro indefinito, ma specifico, non serve come mezzo per raggiungere altri scopi, ed è perseguito prima del proprio interesse.

Ciò che attiva questo scopo è la percezione della sofferenza, o del bisogno dell’altro.

Per provare senso di colpa altruistico si deve sentire di aver noi stessi compromesso uno scopo altruistico attraverso una nostra azione o omissione, ed essendo nella possibilità di agire diversamente. Ci riteniamo quindi in qualche modo responsabili della sofferenza altrui.

Quando si prova questo tipo di senso di colpa si può agire in tre modi: evitando ulteriori colpe altruistiche, perseguendo il bene della vittima prima del proprio, e infine attuando una vicinanza partecipe alla vittima.

Il senso di colpa deontologico parte dal presupposto di aver trasgredito una norma morale che si vuole rispettare attuando un comportamento, o avendone anche solo il desiderio di trasgredirla. La persona ritiene che avrebbe potuto agire diversamente. Lo scopo di rispettare questa norma non è il tornaconto personale.

Una norma morale è una norma deontologica, ovvero una regola che prescrive cosa fare o no, vieta, permette, indipendentemente dai bisogni, desideri, bisogni individuali. Queste regole limitano la libertà individuale. La trasgressione di queste norme può non avere vittime, o provocare danni ad altri.

Quando si prova questo tipo di colpa la persona può agire al fine di evitare altre colpe deontologiche, scusandosi, cercando perdono ed aspettandosi una punizione.

Come tutto ciò riguarda chi soffre di DOC?

Il paziente ossessivo teme la colpa deontologica, più di quella altruistica, e cerca con il suo comportamento e pensieri di prevenirla. Le ossessioni diventano contenuti mentali che minacciano e segnalano il rischio di violazione della norma, e le compulsioni tentativi di prevenirla.

Uno studio di Ehntholt, Salkovskis e Rimes (1999) dimostra che chi soffre di questo disturbo, più del gruppo di controllo, si aspettano di essere detestati o disprezzati se causano un danno. Ad essere giudicata non sarà solo la loro azione, ma tutta la persona. I pazienti ossessivi sono in sensibili alle critiche severe e tale sensibilità svolge un ruolo cruciale nello sviluppo e mantenimento del disturbo.

Quali fatti causano tale sensibilità alla colpa e alle critiche?

Le persone che non soffrono di DOC non si attivano molto per contrastare i sentimenti di colpa, o prevenire errori, ma accettano più facilmente di poter sbagliare, che non hanno il controllo su tutto e che è umano sbagliare ed essere fallibili.

Di solito gli esseri umani imparano a convivere in modo più pacifico con la loro fallibilità grazie ad esperienze infantili di sbaglio, chiarimento e perdono, rese possibili dall’accoglienza delle figure affettive di riferimento.

Chi sviluppa un DOC ha avuto nell’infanzia esperienze di critiche da parte delle figure affettive per lui significative, che hanno favorito lo sviluppo di perfezionismo e di un senso di responsabilità ipertrofico che serve a prevenire ulteriori eventi di critica. Dal perfezionismo e dal senso di responsabilità derivano comportamenti eccessivamente scrupolosi di controllo e autocritica.

In particolare si è visto che nei soggetti che hanno idee ossessive lo stile di disciplina in famiglia è incentrato sulla relazione genitore-bambino. Questo tipo di disciplina usa come mezzo punitivo la relazione, piuttosto che proibire l’uso di oggetti (giocattoli) e attività (guardare i cartoni), trasmettendo al bambino il messaggio che ha causa del suo comportamento è il rapporto stesso con il genitore ad essere stato danneggiato. Il genitore invece che punire l’errore con un castigo ragionevole, si mostra offeso, deluso, affettivamente distaccato dal figlio colpevole.

Facciamo un paio di esempi:

  1. La madre di un paziente quando da bambino commetteva un errore, o una trasgressione si ritirava fisicamente ed affettivamente dalla relazione con lui. In queste situazioni lui viveva un forte senso di inadeguatezza personale, sentiva di essere cattivo e si spaventava della sua cattiveria. Per prevenirla ha cominciato a monitorare i suoi comportamenti per rassicurarsi del fatto che fossero volti al bene altrui e non di danno;
  2. La madre di una paziente quando da bambina sbagliava le diceva apertamente che questo la faceva soffrire e che non voleva avere a che fare con lei. Questo la gettava nella disperazione e piangendo seguiva la mamma chiedendole di perdonarla.

Per l’individuo ossessivo non comporta una semplice conseguenza negativa, ma è vissuto come occasione di disprezzo in cui le possibilità di chiarirsi e ricevere il perdono sono difficilmente pensabili.

L’esperienza di colpa morale è una catastrofe psicologica  causa delle difficoltà che la persona incontra nell’accedere alla possibilità del perdono di sé. Il paziente ossessivo non può così utilizzare una delle possibilità più usate per risolvere il senso di colpa deontologico. Questa non possibilità determinerebbe la persistente paura di commettere nuove colpe morali, che genera le ossessioni e le compulsioni, il cui scopo è contrastare il senso di colpa che le ha generate.

Questa incapacità di accedere al perdono di sé può essere dovuta ad esperienze precoci e reiterate con genitori che puniscono il figlio con punizioni centrate sulla relazione. In questi casi il bambino che ha sbagliato vive una interruzione, o minaccia di interruzione, della relazione con il genitore e il ritiro del suo affetto, senza poter sperimentare che si può essere perdonati, o puniti con una pena commisurata allo sbaglio.

dr.ssa Luigina Pugno

Bibliografia

Barcaccia, Mancini Teoria e clinica del perdono, Raffaello Cortina editore

Leggi anche Le 5 ferite emotive

Quando si riceve una ferita fisica il corpo la ripara con una cicatrice, con un tessuto più duro e resistente, per difendersi meglio contro futuri attacchi.

Noi siamo portati a fare la stessa cosa con le ferite emotive. Formiamo cicatrici, talvolta “corazze”, attuiamo comportamenti di evitamento per autoproteggerci.

Come una cicatrice, la nostra difesa emotiva può crescere troppo e invece di proteggerci da una ferita, ci allontana da tutti, talvolta anche da noi stessi. All’opposto, può renderci più vulnerabili proprio a ciò che temiamo.

La persona con cicatrici emotive si vive come mal accettato, indesiderato, non capace e considera il mondo come ostile, eccessivamente richiedente. I suoi contatti con gli altri non sono basati sullo scambio reciproco, dare e avere, sulla cooperazione e collaborazione, ma sulla competizione, sulla difesa, sulla distanza. Non provando amore, fiducia e comprensione verso gli altri, il prezzo che paga è aggressività, frustrazione e solitudine. 

Esistono 3 caratteristiche che ci rendono più resilienti rispetto alle ferite emotive:

  1. Avere una sufficiente stima di sé. Chi si offende facilmente, chi prevarica sente che piccole cose possono ferirlo. Attua comportamenti per far sapere all’altro che deve tenersi lontano: lontano dal dire cose che lo faranno soffrire, lontano dal fare azioni che lo porteranno a comportamenti aggressivi. Chi ha una stima di sé sufficientemente buona non si sente minacciato da piccole cose, o dalla presenza dell’altro.
  2. Essere responsabili e fiduciosi. Anche se chi ha una corazza non lo mostra, ha un cuore tenero che vuole essere amato e desidera fare affidamento sugli altri. La persona che si riveste di freddezza e di durezza lo fa perché sente di essere debole dentro e di aver bisogno di protezione. La persona che dipende dagli altri sente che la vita le deve amore, considerazione e stima. Richiede questo anche in modo irragionevole e si sente tradita, oggetto di torti, ferita quando questo non avviene.  Chi si fida sinceramente di sé, e non solo di sé, sente di potersi fidare anche degli altri, non ha un bisogno impellente di essere amata e approvata. Si sente sicura di poter sopportare che un certo numero di persone non la ameranno, e approveranno. Si sente responsabile nella vita perciò agisce, dà, persegue ciò che desidera e non riceve passivamente i doni che la vita vorrà darle. E’ importante sviluppare un atteggiamento più fiducioso, assumersi la responsabilità della propria vita e delle necessità emotiva; cercare di dare amore, comprensione, approvazione.
  3. Potersi rilassare. Le sensazioni di offesa, rabbia ecc sono delle reazioni emotive agli eventi. Noi non abbiamo potere sull’emergere delle emozioni, ma possiamo decidere cosa fare con quello che proviamo. Ascoltarle, sentire che le emozioni sono lì per noi e non contro di noi, e poi agire per rispondere al bisogno che ci segnalano, porta ad uno stato di rilassamento. Le emozioni si sentono con il corpo. L’attivazione emotiva porta ad una tensione in qualche parte del corpo. Riconoscere quella tensione e rilassarla, aiuta anche a stare nell’emozione, senza venirne per forza feriti. Può essere utile imparare il Training autogeno, la Mindfulness, praticare yoga.

Cosa si può fare per le vecchie cicatrici emotive che si sono già formate?

Innazitutto si deve capire per quale ferita emotiva soffriamo. Può essere una o più di una. Le più diffuse sono: abbandono, tradimento, ingiustizia, rifiuto e umiliazione.

Il secondo passaggio consiste nel riconoscere le emozioni che più ci attivano rispetto alla nostra ferita e i pensieri negativi che facciamo su di noi e sull’altro.

Il terzo passaggio è rinunciare a vendicarsi direttamente, cioè ferendo a nostra volta l’altro, o indirettamente, cioè parlando male dell’altro, o con comportamenti passivo-aggressivi.

Rinunciare alla vendetta non calmerà le emozioni. L’unico modo per portare totalmente pace è perdonare ed elaborare emozioni e pensieri negativi.

Esistono alcune idee sbagliate su cosa sia il perdono. Le trovi in questi due brevi video.

Per perdonare si deve:

1 riconoscere che c’è stato fatto qualcosa che merita di essere condannato

2 imparare a distinguere le azioni dell’altro dall’intera persona

3 smettere di condannare anche se stessi col rimpianto, o con rimproveri

4 capire cosa ha portato l’altro a ferirci, quindi conoscere la sua storia e il suo

5 contesto riconoscere che come noi commettiamo errori, anche gli altri lo fanno. E’ bene pensare agli errori come qualcosa che è stato fatto, e non come qualcosa che fa la persona. Gli errori, le azioni non ci definiscono come persona.

6 scegliere di perdonare

Dr.ssa Luigina Pugno

Bibliografia:

R. Enright Il perdono è una scelta, ed. Salus Infirmorum

M. Maltz psicocibernetica, ed. Astrolabio (cap. 10)

Il perdono è un sentiero tortuoso dove ci sono pochi riferimenti per orientarsi e molte insidie. E’ un sentiero che attraversa l’animo di ogni essere umano dove la luce si trova in superficie, quando si emerge dall’oscurità delle emozioni frutto dell’ingiustizia subita. Non è un sentiero che si può percorrere agevolmente da soli, per affrontarlo dobbiamo mettere la nostra mano nella mano di qualcun altro: Dio, uno psicoterapeuta, o un amico saggio.

Le parole hanno una loro storia passata e avranno una loro storia futura, ecco la storia della parola perdono.

In principio la parola perdono non esisteva, esisteva il termine latino donumche derivava dalla radice indoeuropea , che indica uno scambio disinteressato di cose. Donare significherebbe inizialmente dare, nel senso di scambiarsi qualcosa.

Esistono doni che non possono essere ripagati equamente, come il dono della vita. Questo tipo di doni genera nell’altro un debito. Il dono diventa così asimmetrico, ma lo è anche ogni debito che non si è in grado di restituire.

Così, come nella parabola di Matteo dei due debitori (MT 18,23-35) che non potevano saldare il loro debito, si aprono due vie: applicare la giustizia simmetrica, cioè la punizione, oppure condonare il debito.

Successivamente al dono, nasce dal verbo donare il termine con-dono. La preposizione con aggiunge alla parola dono il significato di ripetizione, la ripetizione del dono iniziale, con il con-dono si dona due volte. Con questo secondo dono si può cancellare il debito.

Quando il debito verso l’altro non riguarda più beni materiali, ma una colpa etica di cui ci si è macchiati commettendo un’ingiustizia, si entra nell’ambito del per-dono.

Non è facile sapere quando è nato il termine perdono. Nel latino classico non si trova, ma è un termine diffuso nel latino volgare, anche se è riuscito ad entrare nella letteratura solo nel V secolo D.C. in una traduzione di una favola di Esopo da parte di un certo Romulus.

Il termine per-dono deriva probabilmente dall’espressione donare per gratia in cui la preposizione per intensifica il significato del dono rendendolo totale, il perdono va oltre il materiale ed include anche lo spirituale.

L’evoluzione dei termini dono, con-dono e per-dono mostra come si sia partiti da un significato materiale, per poi trascenderlo fino a recuperare la giustizia attraverso il perdono.

Quando possiamo parlare di ingiustizia?

Si commette un’ingiustizia quando si compie un atto dannoso volontariamente. Quando ciò accade si prova colpa. Quando l’uomo sa di essere ingiusto diventa capace di accettare la punizione, ma anche di aprirsi al perdono, cioè alla gratia.

La punizione serve a restituire una simmetria tra offeso e offensore, ma come sappiamo i procedimenti giudiziari spesso non fanno sentire che giustizia è stata fatta. Solo il perdono ha il potere di far tornare il colpevole nell’ambito della giustizia, ma non può far sì che offeso e offensore tornino alla relazione esistente prima della colpa.

Con il perdono la vittima si libera da una relazione con il colpevole dominata da emozioni spiacevoli come rabbia, rancore e odio. Con la vendetta invece non si ha il superamento di queste emozioni, ma la creazione di un circolo vizioso che le esacerba.

Il perdono è necessario affinché ci sia la speranza di guarire le ferite inflitte ingiustamente e di creare un nuovo rapporto tra le parti. Il perdono è un prerequisito per la riconciliazione, ma non la causa. Tra perdono e riconciliazione non c’è un rapporto biunivoco, si può perdonare senza riconciliarsi.

Nella storia della parola perdono troviamo tutti i temi fondamentali del sentiero che porta alla liberazione dalle emozioni legate all’ingiustizia subita: regalo, colpa, vendetta, riconciliazione, cambiamento intra e interpersonale.

E’ un sentiero laico, che riguarda ogni essere umano, ma che interessato la filosofia ed ha attraversato le grandi religioni monoteiste e quella buddhista. La ricerca scientifica sul perdono è cominciata infatti solo alla fine del secolo scorso.

Dobbiamo prenderci un po’ di tempo per vedere come il tema del perdono è visto dalle quattro religioni più diffuse, perché ci sarà utile per capire cosa è emerso dalla ricerca psicosociale.

Le concezioni religiose del perdono sono interessanti, perché favoriscono la comprensione dei vari aspetti del perdono in ambito psicosociale. Per cominciare le credenze religiose favoriscono una predisposizione al perdono, ma sono anche illuminanti, perché toccano gli aspetti cruciali e controversi che ritroviamo nelle nozioni psicosociali di perdono.

Leggi anche i prossimi articoli per cominciare a familiarizzare con il Processo terapeutico del perdono.

Se vuoi leggere di Perdono, vendetta e riconciliazione nelle grandi religioni, clicca qui

Fammi sapere cosa ne pensi. Grazie!

Dr..sa Luigina Pugno

Leggi anche la concezione del perdono nelle 4 maggiori religioni

Nella letteratura psicosociale manca una definizione concorde di cosa sia il perdono, ma ci sono dei punti di comunione.

Chi non sa cosa sia il perdono pensa che perdonare significhi:

  • Fingere che non sia successo nulla,
  • Mettersi nella condizione di essere feriti di nuovo,
  • Permettere all’altro, o a noi stessi, di non assumersi le proprie responsabilità,
  • Riconciliarsi con chi ci ha fatto del male
  • Rinunciare alla funzione catartica della vendetta

Il perdono non è:

  • Condonare, scusare, o giustificare, ma riconoscere che quello che è stato fatto era sbagliato e non deve ripetersi,
  • Dimenticare. Il perdono non produce amnesia, ma può modificare il modo in cui si ricorda il passato,
  • Giustificare, o ritenere quell’atto legittimo,
  • Condonare un’azione che ha portato a danni misurabili,
  • Scusare un’azione, che ha portato ad effetti negativi di modesta entità,
  • Un obbligo, ma una scelta.

Esiste anche lo pseudo perdono, che avviene quando si perdona una cosa di poco conto, per esempio quando si dice “ti perdono” per dimostrare la propria superiorità morale.

Che cos’è il perdono? La definizione che mi piace di più è quella di Enright, lo scienziato che ha maggiormente studiato questo tema: “il perdono è un dono che si fa a qualcuno che non se lo merita”.

Il perdono è:

  •  essenzialmente un processo che modifica e trasforma la persona che lo intraprende,
  • esso non modifica ciò che è successo, ma modifica il modo di vedere la persona nonostante quello che ha fatto;
  • inoltre diminuisce o elimina i sentimenti, i pensieri  e i comportamenti  negativi verso l’offensore,
  • il perdono porta a sviluppare sentimenti, pensieri e comportamenti positivi verso l’offensore,
  • permette di superare la rabbia, l’ira o il rancore. Siccome rimanere adirati dà potere a chi offende e nega la libertà alla vittima,
  • permette di uscire dallo status di vittima.

Quale rabbia permette di superare? Quella non sana, che è quella che dura nel tempo per una grande ingiustizia, o per tante piccole offese; quella diretta verso una o più persone e non verso il caso, o le circostanze; quella causata da una reale ingiustizia; quella che porta a comportamenti auto lesivi; quella che influisce sulla salute psicofisica.

Possiamo quindi dire che il perdono è motivato congiuntamente da due scopi; uno egoistico, portare serenità dentro di sé, ed uno altruistico, sgravare l’aggressore dal suo debito.

Prima di vedere le fasi che si attraversano durante il processo del perdono, facciamo chiarezza comprendendo la differenza tra condonare, scusare, giustificare e perdonare.

Come abbiamo detto prima il dono è un’azione che sancisce una relazione sociale di scambio. Il dono aggiunge qualcosa all’altro, potremmo dire che in un certo senso dando all’altro qualcosa in più rispetto a quello che aveva, lo arricchiamo. Quando l’altro non può dare nulla in cambio si crea un debito che può essere condonato. Quando l’azione dell’altro crea un danno misurabile, essa può essere scusata, la si può giustificare, cioè capire come mai è stata fatta, ma non si ritiene quell’atto legittimo, l’altro ne è sempre responsabile e deve assumersene la responsabilità. Quando l’azione lesiva riguarda un danno non quantificabile a livello materiale, ma è un danno esistenziale, esso non è più scusabile. L’inscusabile è perdonabile. Scriveva Jankelevitch: “L’azione che non trova avvocati per difenderla ha bisogno del perdono”.

L’azione della scusa e del perdono seguono vie diverse. La scusa calcola, misura i danni subiti e determina l’azione di scusare. Il perdono non è un prodotto razionale, non è frutto di un calcolo, è gratuito. Si perdona l’inscusabile per questo suscita una reazione di scandalo e per questo è difficile.

Il perdono si colloca nel tempo: guarda al passato senza poterlo cancellare, ma può far sì che gli effetti dell’azione (del male subito) mutino, che non produca rancore e di conseguenza altro male. Il rancore è il prodotto della memoria. Il perdono lavora sul rancore, sulle emozioni, non sulla memoria. Il tempo può far dimenticare l’evento, ma non cura le emozioni, solo il perdono può farlo. Solo il perdono risolve la rabbia e la sofferenza, blocca la spirale di odio e vendetta e porta la pace.

Possiamo paragonare il male ad un seme, che spesso dà un frutto: la vendetta, che come ogni frutto produce un nuovo seme e rende senza fine il ciclo male-vendetta. Il perdono non ha la capacità di annullare il seme del male, tuttavia può far sì che non nasca da esso il frutto della vendetta e altro male.

La ricerca psicosociale sulla vendetta conferma quanto appena detto. La vendetta non porta benessere a chi la attua. La vendetta e la sua pianificazione hanno un effetto boomerang. Se l’attuazione della vendetta può portare a conseguenze negative come l’odio tra famiglie (si veda in Romeo e Giulietta di Shakespeare i, o le continue vendette tra famiglie mafiose), problemi sociali, conseguenze legali e penali ecc., la sua pianificazione non è da meno. Da un punto di vista psicologico la persona rischia di rimanere intrappolata nella ruminazione rabbiosa. La ruminazione è il continuo ritornare della mente sugli eventi. In questo caso sulla ingiustizia subita e sull’offensore. Tale attività mentale si autoalimenta inasprendo lo stato mentale di partenza. La persona si ritrova consumata dalla rabbia. La ruminazione rabbiosa ha effetti anche sul fisico, perché disturba la qualità del sonno, e aumenta i livelli di cortisolo.

Anche quando si riesce ad attuare la vendetta, le ricadute psicologiche non sono positive.

Secondo la visione comune e occidentale la vendetta ha una funzione catartica rispetto alla sofferenza che si prova in seguito ad un’ingiustizia. Tale posizione è stata ampliamente smentita dalla ricerca scientifica (Bushman 2002). Sfogare la propria rabbia attraverso la vendetta la esacerba, perché porta ad un aumento della ruminazione sull’offensore. Negli esperimenti chi aveva perdonato aveva smesso di pensare all’accaduto, mentre chi aveva avuto la possibilità di vendicarsi aveva continuato a pensarci e a soffrirne. Credevano, a questo punto erroneamente, che se non l’avessero fatto si sarebbero sentiti peggio.

Quanto scoperto dalla ricerca sulla vendetta viene descritto in un episodio della seconda stagione della serie Glitch dove Kirstie ha la possibilità di vendicare il suo stupro e la sua morte, ma mentre sta per attuare la vendetta sul suo aggressore si rende conto che non avrebbe avuto nessuna funzione catartica e vi rinuncia.

Se non perdonare, o vendicarsi non ha effetti positivi, quali effetti positivi ha il perdono?

La ricerca psicosociale su chi perdona ha evidenziato effetti positivi a livello fisico, psicologico e interpersonale. A livello psicologico si sono evidenziati la diminuzione, o scomparsa di sentimenti, pensieri e comportamenti negativi verso l’offensore, e al contrario sviluppa sentimenti, pensieri o comportamenti neutri, o positivi verso di lui. A livello fisico migliora la qualità della vita e del sonno, i livelli di cortisolo, la pressione arteriosa, il sistema immunitario.

Va bene, ora che abbiamo capito cos’è il perdono e cosa non è, che il perdono non si attua con la formula “io ti perdono”, ma che è un processo di cambiamento, gli effetti negativi che il mancato perdono può avere sulla mia e altrui vita e gli effetti positivi che ha perdonare, come faccio a perdonare?

Leggi anche le Fasi del perdono secondo il dottor Enright

Dr.ssa Luigina Pugno

#perdono #terapiaperdono #vendetta

Il perdono come strumento psicoterapeutico è’ uno strumento laico, che riguarda ogni essere umano, ma che ha attraversato le grandi religioni monoteiste e quella buddhista, fino a rimanere segnato per secoli solamente nelle loro mappe.

La ricerca scientifica sul perdono è cominciata infatti solo alla fine del secolo scorso.

Prima di parlare di come si può usare il perdono come strumento terapeutico dobbiamo prenderci un po’ di tempo per vedere come il tema del perdono è visto dalle quattro religioni più diffuse, perché ci sarà utile per capire cosa è emerso dalla ricerca psicosociale.

Le concezioni religiose del perdono sono interessanti, perché favoriscono la comprensione dei vari aspetti del perdono in ambito psicosociale. Per cominciare le credenze religiose favoriscono una predisposizione al perdono, ma sono anche illuminanti, perché toccano gli aspetti cruciali e controversi che ritroviamo nelle nozioni psicosociali di perdono.

Ora prendiamo le mappe delle religioni e cominciamo a familiarizzare con il sentiero del perdono.

Cominciamo a percorrere il sentiero del Buddhismo. Sulla sua mappa non troviamo concretamente la parola perdono, ma esso si manifesta in molti concetti fondativi di questa religione, come la legge del Karma, il non attaccamento agli oggetti materiali e immateriali, e le virtù della tolleranza e della compassione. Secondo la legge del Karma il bene o il male che facciamo ci tornerà indietro in questa vita e in quelle successive, perciò bisogna astenersi dal compiere azioni lesive o dal nutrire emozioni e pensieri ostili anche se giustificati. Aiuta l’uomo in questo scopo la virtù della tolleranza, che consiste nell’accettare e sopportare ogni forma di sofferenza, anche quella causata da altri uomini. La non accettazione aggrava il proprio karma perché fa da precursore a comportamenti lesivi come la ritorsione e a sentimenti che affliggono come il risentimento. Rimanere attaccati alle offese subite, portandole nel nostro presente attraverso la ritorsione e la rabbia, accrescerà l’infelicità in questa vita e in quelle future. La tolleranza è quindi un atto egoistico volto a portare benessere nell’offeso. Oltre ad essa, aiuta l’uomo nel ridurre la sofferenza, la virtù della compassione. Tolleranza e compassione non coincidono con il perdono, ma lo includono. La compassione è rivolta alle sofferenze altrui e non alle proprie. Attraverso la compassione l’aggressore è visto come una persona sofferente, che ha commesso un’azione ingiusta e che ha bisogno di aiuto (Dharmapada v 5).

Ritroviamo la compassione buddhista verso l’aggressore nel sentiero del perdono quando per raggiungere questo obiettivo, la persona cambia la propria visione dell’aggressore attraverso l’empatia.

Ora davanti a noi il sentiero si divede in tre rami, quelli delle tre grandi religioni monoteiste: ebraismo, islamismo e cristianesimo, che più di altre hanno insistito sul tema del perdono.

In queste tre religioni i rapporti umani dovrebbero tendere a riprodurre la relazione ideale tra l’uomo e Dio, relazione in cui il perdono svolge un ruolo centrale. Anzi il perdono è il punto di partenza: come Dio perdona agli esseri umani le sue mancanze, così gli esseri umani dovrebbero perdonarsele reciprocamente. Come scrive l’evangelista Giovanni, Gesù disse “chi è senza peccato scagli la prima pietra” (GV 8,7), ma nemmeno Gesù la scagliò. Per ottenere il perdono di Dio, bisogna perdonare. Poiché ogni essere umano è fallibile,ma fatto a immagine di Dio, è degno di rispetto.

Sulla mappa dell’ebraismo troviamo l’indicazione che il perdono deve essere meritato ed è quindi condizionato dal fatto che l’offensore si redima. Se non mostra pentimento il perdono è sconsigliato, perché esporrebbe ad altri atti ingiusti. Dall’altra parte, ottenere un perdono immeritato può incoraggiare il comportamento ingiusto. Ma se l’offensore si mostra pentito la vittima ha l’obbligo di perdonare. Nella Torah se il pentimento è autentico il colpevole mostra pubblicamente la sua colpa e dichiara di non commetterla più. Anche la vittima è obbligata a mostrare esplicitamente che non nutre più risentimento.

L’importanza data alla manifestazione della colpa e del perdono mette in luce l’aspetto interpersonale del perdono.

La tradizione ebraica ritiene che il comportamento manifesto possa favorire un cambiamento interiore, che manifestare pentimento e perdono portino a pentirsi e perdonare anche nel proprio cuore.

Proseguendo sulla mappa islamica troviamo un altro importante tema legato al perdono: la vendetta. L’islam ritiene la vendetta un comportamento legittimo, a condizione che sia proporzionata al torto subito. Poiché è difficile quantificare un’ingiustizia e una vendetta equa, è preferibile il perdono. Inoltre il perdono rende la vittima magnanima e la fa somigliare a Dio (Corano 42, 40)..

La vendetta è invece un peccato in ebraismo e cristianesimo.

Islam e cristianesimo sono invece concordi nel ritenere il perdono incondizionato e quindi indipendente dal pentimento e dal risarcimento.

Sulla mappa cristiana il perdono occupa più spazio. E’ la religione che più ha insistito su questo tema. Nella preghiera del padre nostro è descritto nelle parole: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori (MT 6, 10-12). Lo stesso Gesù sulla croce prega Dio dicendo: “Perdona loro perché non sanno quello che fanno”.

Nel Vangelo la parola perdono è la traduzione della parola greca aphiemi che significa mettere in libertà. Il perdono libera dalla colpa e dalla sofferenza. Finché non si perdona si rimane legati alle catene dell’attaccamento.

Il Vangelo ci dà anche una indicazione di quante volte dovremmo perdonare (MT 18, 21-35) “In quel tempo Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: “Signore quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?” E Gesù gli rispose ”Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”.

L’unica misura del perdono è che è senza misura.

Ancora l’evangelista Matteo scrive “Sapete che è stato detto: ama i tuoi amici e odia i tuoi nemici. Ma io vi dico: amate anche i vostri nemici, pregate per quelli che vi perseguitano” (MT 5, 43-44). Questo significa non portare rancore, non alimentare pensieri e sentimenti ostili, ma anzi di pregare anche per chi ci fa del male.

Con il sentiero del Cristianesimo si ritorna su quello buddhista.

Tutte e tre le grandi religioni monoteiste fanno incrociare i loro sentieri in un punto: il tema della riconciliazione.

La riconciliazione non è una condizione per il perdono. Ci può essere perdono senza riconciliazione, ma il perdono precede sempre la riconciliazione genuina.

Sulle mappe religiose troviamo gli stessi tempi inerenti il perdono riscontrati nella ricerca psicosociale: compassione, relazione interpersonale, riconciliazione, libertà dalla sofferenza e vendetta.

Anche se il buddhismo e le grandi religioni monoteiste cominciano con un uomo, non solo la religione ci ha parlato del perdono, lo hanno fatto anche due uomini, che non hanno dato origine ad alcuna religione, ma che si sono battuti per la libertà, ed hanno utilizzato il perdono per mettere fine alla schiavitù e all’odio. Questi due uomini sono Gandhi e Mandela.

Gandhi ha detto: “I deboli non perdonano mai. Il perdono è l’attributo dei forti” e Mandela ha detto: “Il perdono libera l’anima, rimuove la paura. E’ per questo che il perdono è un’arma potente”.

Abbiamo camminato nella storia dell’etimologia e delle religioni. Sul sentiero del perdono abbiamo cominciato a confrontarci con altri importanti temi, che ora dobbiamo attraversare.

Se vuoi leggere com’è nato il perdono clicca qui

Cominciamo capendo cos’è e cosa non è il perdono.

Dr.ssa Luigina pugno

Lo studioso che più ci aiuta a percorre questo sentiero è Enright. Secondo lui il perdono si compone di alcune fasi.

Innazitutto per perdonare bisogna essere in quello che non avremmo dovuto vivere, dobbiamo riconoscere che quello che ci è stato fatto è un’ingiustizia e che non doveva essere compiuta.

Per poi passare a riconoscere gli effetti che quell’ingiustizia ha avuto su di noi, a livello concreto ed emotivo. Riconoscere le emozioni che si provano in seguito all’offesa, verso l’accaduto, verso l’offensore, verso altri e verso se stessi e riconoscere quante energie psichiche stiamo impiegando per far fronte all’offesa.

Si deve capire che le strategie di risoluzione precedentemente adottate non hanno funzionato e valutare se il perdono è un sentiero percorribile e se si, decidere di impegnarsi a perdonare l’offensore. Impegnarsi a perdonare implica mettere da parte ogni pretesa di vendetta, anche nelle sue forme più sottili (ad esempio parlar male dell’offensore)

A questo punto si lavora sull’accettazione della sofferenza e sulla trasformazione della rabbia.

Dopo essersi occupati di sé si comincia ad occuparsi dell’offensore lavorando sulla consapevolezza attraverso la conoscenza della sua storia e le forze che lo hanno fatto agire ingiustamente. Questo serve a vedere la persona oltre l’atto, a vedere la persona inserita in un contesto con una storia, a vedere la sua umanità. Se non riusciamo a vedere la sua umanità cadiamo nello stesso male.

Disse a tal proposito Martin Luther King jr:

“Questa reazione a catena del male – l’odio genera odio, guerre producono guerre – deve essere interrotta o ci ritroveremo immersi nell’abisso oscuro dell’annientamento. L’amore è l’unica forza capace di trasformare un nemico in amico. Per sua stessa natura, l’odio distrugge e abbatte; per sua stessa natura l’amore crea e costruisce”.

Quando si vede la persona e non solo il gesto, la sua storia, le sue motivazioni si passa a lavorare sulla compassione. L’empatia nasce quando le persone arrivano a comprendere gli altri, L’empatia può generare un senso di compassione per gli altri e per sé.

Ci si avvia verso la parte finale del sentiero e si rende necessario trovare un senso alla sofferenza, sia per sé sia per gli altri. Capire in che modo ci ha migliorati, ci ha aggiunto qualcosa. Forse ci ha reso più forti, più sensibili, più coraggiosi ecc.  Magari anche altri hanno ricevuto benefici dal nostro cambiamento.

Abbiamo detto che il perdono è un dono. Così quando i sentimenti si saranno trasformati, quando la sofferenza avrà lasciato il posto alla compassione, si comincerà a pensare di far qualcosa di positivo per l’altro. Senza quest’ultimo passaggio il perdono non è completo.

Dopo aver camminato anche su quest’ultimo tratto siamo pronti per perdonare.

Se vogliamo, oltre il perdono possiamo prendere anche delle decisioni,come comunicare o meno il perdono, riconciliarsi o meno con l’offensore.

Valutate le possibilità e le opportunità di queste decisioni, ognuno farà le sue scelte.

Siamo arrivati alla fine. Ora possiamo guardarci indietro. Vedere tutti i percorsi che abbiamo dovuto camminare per arrivare al traguardo del perdono. Per alcuni sarà stato come percorrere un sentiero semi conosciuto; per altri sarà stato come fare il pellegrinaggio di Compostela: lungo, ma fattibile; per altri ancora sarà stato come intraprendere il sentiero degli Appalachi senza allenamento e con le attrezzature tutte sbagliate. Per riuscire a camminare abbiamo usato le mappe e gli attrezzi dell’etimologia, della religione, della scienza, di un terapeuta e anche di chi ci circonda.

Rimane un’ultima riflessioni che puoi fare. Desiderando una vita migliore per te, per chi ami, magari hai già lavorato su di te per liberarti dalla sofferenza, ma da qualche parte la senti ancora lì, senti che non sei del tutto in pace. In questo caso, cosa ne diresti di prendere in considerazione il perdono?

Dr.ssa Luigina Pugno

Psicoterapeuta a torino

BIBLIOGRAFIA

Barcaccia B., Mancini F. Teoria e clinica del perdono, Raffaello cortina editore

Bertagni G. Il perdono nel cristianesimo e nel buddhismo

Bianchi E.Le vie della felicità. Gesù e le beatitudini

Boch B.  Il gioco del perdono Astrid editore

Dalai Lama La saggezza del perdono

Enright R. D. Il perdono è una scelta ed Salus

Jankelevitch V. Il perdono ed. IPL

King M. L. jr The strenght to love Fortress Press

Simeone M. N., Benedizione e perdono, autopubblicazione su Amazon

Worthington E., The power of forgiveness, ed Templeton Foundation Press Philadelphia London

Fonte: dr,ssa Pugno

Lo yoga e la meditazione Mindfulness hanno origini molto antiche, si parla di oltre due millenni fa.

Yoga e meditazione non sono due pratiche separate, anche se in occidente vengono proposte come se la prima fosse un’attività fisica, alternativa agli sport aerobici o anaerobici, e la seconda come qualcosa solo per alcuni.

Come vedremo in questo articolo yoga e meditazione sono due pratiche che si sostengono a vicenda.

Cominciamo con il condividere alcune informazioni

Gli yogi hanno postulato che esistono 3 livelli corporei:

1 un corpo causale composto da pensieri e credenze;

2 un corpo astrale formato da desideri ed emozioni;

3 un corpo fisico formato da sostanza materiale.

Secondo il buddhismo la nostra coscienza non è limitata a questi 3 corpi e con la pratica costante di yoga e meditazione possiamo andare oltre questi 3 corpi e sperimentare unione con tutto ciò che esiste nell’universo, questa unione è appagante più di ciò che può offrire la nostra limitata presenza.

La pratica sistematica che lentamente libera la nostra consapevolezza dai 3 corpi fa riferimento a 3 postulati fondamentali nella teoria dello yoga:

1 i nostri 3 corpi sono uniti insieme e si influenzano reciprocamente passando attraverso speciali centri della colonna vertebrale e del cervello chiamati chackra (porte);

2 l’energia che passa attraverso i chackra si chiama Qi;

3 l’energia passa attraverso i nostri corpi seguendo dei meridiani.

Fisico, astrale e causale sono le 3 manifestazioni del Qi.

Il Qi fisico si manifesta attraverso la consapevolezza di una parte del corpo. Quando proviamo piacere l’energia fluisce libera attraverso i meridiani, quando proviamo tensione l’energia è bloccata.

Il Qi astrale si manifesta attraverso ricordi e desideri, che non vanno combattuti, ma accolti ed esaminati per liberarsi della loro influenza.

Il Qi causale si manifesta con pensieri e credenze di cui diventare consapevoli.

Esistono 2 tradizioni di medicina energetica: la tradizione indiana tantrica e quella cinese taoista. Nel Tantra l’energia è chiamata Prana (respiro), i centri che la controllano sono chiamati chackra e i canali attraverso cui passa sono chiamati nadi. Nel Tao l’energia è chiamata Qi, i centri che la controllano sono chiamati dantian e i canali attraverso cui passa sono chiamati meridiani.

Nelle due tradizioni i nadi e i dantian sono poco descritti, mentre sono ben descritti i chackra e i meridiani, per cui utilizziamo questi ultimi due termini.

Per mantenere i chackra aperti si utilizza la meditazione, ma meditare per molto tempo fermi fa ristagnare l’energia e causa dolore che distrae, per cui sono stati sviluppati esercizi per armonizzare il flusso dei Qi e curare il corpo, rendendo più facile meditare per lungo tempo.

Queste esercizi sono stati successivamente codificati nel Tai Chi Chuan e nel Kung fu. Gli yogi indiani hanno codificato esercizi per preparare il corpo alla meditazione da fermi e far fluire il Qi, che sono confluiti nell’Hatha yoga.

Il Qi è l’energia che coordina i cambiamenti elettrici e chimici all’interno del corpo.

Se vogliamo incorporare la teoria dei meridiani nello yoga dobbiamo aver chiari i concetti taoisti di yin e yang. Yin e yang sono termini che descrivono i vari livelli dei fenomeni: Yin sono gli aspetti stabili, non mutevoli, nascosti di un oggetto, mentre yang sono gli aspetti opposti. Gli oggetti possono possedere entrambi gli aspetti yin e yang.

Anche lo yoga possiede entrambi gli aspetti, dipende da quali parti del corpo sono il suo target.

La caratteristica fondamentale degli sport yang e la ritmicità e l’alternanza di contrazione e rilassamento muscolare (es. corsa, nuoto). Molte forme popolari di yoga (ashtanga, visnyasa, power yoga) sono yang.

Invece esercizi che contraggono gentilmente il tessuto connettivale e le articolazioni sono yin.

Siamo abituati a pensare che i muscoli possano crescere e rinforzarsi, ma non pensiamo che anche il nostro tessuto connettivale e le nostre articolazioni possano modificarsi. Ma questo non è vero. Il grosso dei problemi fisici che abbiamo mentre invecchiamo, o che incontrano gli atleti sono legati alle articolazioni.

Se non ci prendiamo cura del nostro tessuto connettivale questo comincerà ad accorciarsi, ridursi. Se vogliamo mantenere le articolazioni sane dobbiamo esercitarle, non come facciamo con i muscoli, ma in modo yin.

Entrambe le forme di esercizi yin e yang sono necessarie e si supportano l’un l’altra.

Uno degli obiettivi a lungo termine dello yin yoga è rendere le articolazioni flessibili, ma quando non siamo abituati a praticarlo, nel breve periodo sperimenteremo articolazioni rigide e fragili.

Il tessuto connettivo si mostra resistente a piccoli stress, ma comincia ad ammorbidirsi e allungarsi quando l’esercizio dura per più tempo. Ciò permette al Qi di fluire attraverso i tessuti e al praticante di meditare tra una posizione e l’altra.

Le posizioni dello yin yoga devono essere tenute con i muscoli rilassati per poter stressare il tessuto connettivo intorno alle articolazioni. Per esempio io posso allungare il tessuto connettivo tra i muscoli delle dita della mano se le dita sono rilassate, ma non se i muscoli sono tesi. O ancora se voglio allungare il tessuto tra le vertebre dovrò avere contratti i muscoli addominali, ma non quelli dorsali vicino alle vertebre.

In ogni articolazione ci sono 3 strati: l’osso, il tessuto connettivo e i muscoli che muovono l’osso. Quando i muscoli sono rilassati, le ossa non sono sollecitate e il tessuto connettivo si allunga. Quando i muscoli sono in tensione, le ossa sono spinte e il tessuto connettivo non si allunga.

Quando si pratica yin yoga è meglio avere un’attitudine yin: essere pazienti e non aggressivi quando si mantengono le posizioni. Il potere dello yin yoga è il tempo non lo sforzo.

Molti principianti trattengono il respiro mentre mantengono una posizione yoga. Alcune posizioni richiedono una specifica alterazione del respiro, ma solitamente le posizioni agiscono naturalmente sul respiro. Forzarsi a respirare in un certo modo ostacola l’influenza che la postura ha sulla respirazione. Quindi quando si pratica lo yin yoga è meglio non stare in apnea e respirare normalmente.

Dopo aver praticato una posizione per qualche minuto è meglio rilassarsi sulla schiena e percepire il rimbalzo. Le posizioni bloccano il flusso di Qi e sangue in alcune zone e lo reindirizzano verso altre. Il rimbalzo è ciò che percepiamo quando rilasciamo la posizione e ci rilassiamo.

Le sensazioni fisiche di allungamento dei muscoli e delle articolazioni dominano la nostra consapevolezza quando manteniamo una posizione, ma quando ci rilassiamo possiamo con calma focalizzarci sulla percezione del Qi, che può manifestarsi con una sensazione di pressione che si disperde, o come energia nelle nostre gambe e colonna vertebrale. Dopo un minuto la sensazione muta in una generale sensazione di calma non collegata ad un’area particolare.

Coltivare la consapevolezza del Qi è una parte importante della pratica yoga, perché è il filo che unisce i 3 corpi. Imparare a percepire il Qi nel corpo è il primo passo per percepire le emozioni nel corpo astrale e i pensieri in quello causale.

Alcuni affermano di non percepire nulla, ma ciò che percepiamo dipende da dove mettiamo la nostra consapevolezza. Solitamente non percepiamo l’aria che entra nelle narici, a meno che non ci facciamo attenzione, appunto.

Il Qi fluisce in ogni cellula. Nei meridiani profondi è percepito nelle ossa, nei muscoli e negli organi.

Yin yoga amplifica l’energia del Qi e riduce quella dei nervi, per cui una comune reazione dopo una posa yin è di desiderare di riposare senza muoversi. Questa inibizione del movimento è uno stato desiderabile che prelude alla meditazione. Molte persone sono così tese che non riescono a rimanere ferme per qualche tempo. Praticare yin yoga può cambiare ciò. Se ti accorgi di desiderare di protrarre la fase di riposo durante la pratica, non ostacolarti. Riconoscilo e fallo, questo ti aiuterà a sviluppare l’abilità di ricreare calma dentro di te. Quando tu puoi fare questo, sei vicino a superare il primo ostacolo alla meditazione, che è stare seduto con la schiena eretta, ma non rigida per lunghi periodi di tempo.

La pratica yoga deve essere viva e adattata ai bisogni e alle fasi della vita.

Vediamo ora alcune linee guida per sviluppare la propria sequenza di posizioni yoga:

1 ogni posizione non va bene per qualcuno. Non ti fissare sul fare una posizione. La posa deve essere terapeutica e non una sfida da vincere. Alcune pose possono essere poco confortevoli, ma farti ben, altre possono solo esserti nocive.

2 I piegamenti in avanti sono yin. Portano la testa a livello del cuore rendendo più facile far arrivare il sangue al cervello e abbassa la pressione sanguigna. Inoltre i piegamenti armonizzano il flusso del Qi lungo i meridiani vicini alla colonna vertebrale, calmano e sedano.

3 I piegamenti indietro sono yang. I piegamenti indietro non necessitano di essere mantenuti a lungo quanto quelli in avanti.

4 Il momento della giornata e le stagioni sono importanti. La pratica yang è preferibile al mattino e nelle giornate fredde, quella yin la sera e quando fa caldo.

5 Più si pratica yang e più le pose devono essere varie e brevi, con diverse ripetizioni. Più si pratica yin e meno pose sono necessarie, ma mantenute più a lungo.

6 Va bene praticare yang prima di yin o viceversa.

7 Usa cuscini, corde, mattoncini o palle per yoga se le posizioni stressano il tuo corpo.

Dr.ssa Luigina Pugno

psicoterapeuta Torino – conduttrice protocolli Mindfulness based

#yinyoga #meditazione #mindfulness

FONTI:

Lee, Jo. Yin Yoga : How to Practice Yin Yoga Correctly . Edizione del Kindle.

Stefanie Arend. Yin yoga. Ed. Il punto d’incontro

Fonte: Luigina-Pugno

“La terra è piatta” “Non siamo mai stati sulla luna” “Il riscaldamento globale non esiste” “I vaccini servono solo per ingrassare Big Pharma” “Svegliatevi!” “Ci stanno ingannando, per controllarci” “forse non sai che …” “Il covid-19 è stato prodotto in laboratorio per farne un’arma batteriologica e ci usano come cavie” “Il covid-19 non esiste. E’ un’invenzione del governo per controllarci”

E tante altre ancora sono le frasi comuni, che escono dalla bocca, o meglio dalla tastiera del complottista.
Una personalità (?) che sempre di più sentiamo nominare, anche ai tempi del coronavirus.

Innanzitutto cos’è un complotto? Il complotto è una cospirazione segreta ai danni di qualcuno. Di solito qualcuno lo scopre dopo un’inchiesta giornalistica, e denunciato.

Chi è il complottista? Vista la definizione il complottista sarebbe colui che complotta, ma quando si riferisce ad una persona che li vede negli argomenti “caldi” del momento, il complottista diventa colui che scopre e rivela un complotto. Una persona che non è vittima di un complotto, ma lo usa.

Quali sono le sue caratteristiche? Di sicuro non è un giornalista che fa inchieste, perché il complottista non legge più e più articoli, non fa ricerche su riviste specializzate, non è nemmeno uno studioso dell’argomento. Il complottista le cose che rivela le trova già in rete e soprattutto non verifica l’attendibilità delle fonti. Le fonti sono vaghe, conoscenti di qualcuno, altri complottisti, riviste con nessuna credibilità e, ahimé, qualche laureato in medicina, o lauree scientifiche, ma non dell’argomento di cui si parla, qualche laureato nell’argomento che sembra essersi dimenticato la serietà di ciò che ha studiato.
Lo scopo del suo comportamento è attirare l’attenzione generando dubbi, preoccupazioni, indossando il mantello del rivelatore/salvatore. L’attenzione che riceve lo gratifica, sia essa favorevole o contraria. Lo fa sentire superiore, perché lui si che sa quella cosa, che gli altri ignorano. E’ totalmente auto centrato e non gli importa realmente dell’altro, gli importa che lui riceva visibilità. Non gli importa di creare un danno all’altro diffondendo notizie false, gli importa di stare bene lui.
E’ una persona che crede che ci siano risposte semplici a problemi complessi, e che la via per liberarsi dal complotto sia boicottare chi ci controlla.

Il complottismo è un disturbo mentale? Il fulcro emotivo e cognitivo su cui ruotano le sue emozioni e i suoi pensieri è il sospetto. La dinamica relazionale è basata sulla persecuzione e sul controllo. Sull’idea/sensazione che qualcuno voglia fargli/ci del male. I suoi sospetti sono inattaccabili, perché poggiano sul verosimile. Le argomentazioni contrarie confermano ancora di più l’esistenza di qualcuno che gli è contrario. La convinzione diventa quasi un delirio. Non c’è consapevolezza del proprio funzionamento maladattivo, perché i sintomi sono egosintonici: sono visti come aspetti della propria personalità, e non come sintomi di una patologia. Il complottista si sente minacciato e cerca di trovare la fonte di questa minaccia, di darle un nome. Identificandola, cerca di combatterla usando la tastiera del pc. Questi sintomi possono far pensare al disturbo paranoico.
C’è un’importante differenza: il paranoico sente il proprio sé minacciato, è egocentrico, mentre il complottista è egoista e ciò lo gratifica. Il paranoico lotta per non percepire la sua vulnerabilità, che lo fa sentire debole, il complottista usa la paranoia per sentirsi sicuro e dominate. Il paranoico vuole liberarsi dal senso di minaccia personale, il complottista lo vuole alimentare negli altri.
I complottisti non chiedono aiuto, perché sono loro a darlo!

Come mai ci crediamo? La mente umana è attratta dal mistero, da cose che non riusciamo a spiegarci, perché la nostra mente vuole capire e dare un significato alla realtà che ci circonda. La vuole conoscere.
La mente umana è curiosa, vuole conoscere il reale, ma soprattutto ciò che ci riguarda e riguarda gli altri. La mente umana è anche suggestionabile, per questo l’ipnosi funziona. Capace di vedere cose dove non ci sono. Un fantasma in un repentino cambio di luce. Un vaccino come inutile, perché la malattia da cui di protegge non registra più casi da anni.
L’istinto di protezione è il più importante che abbiamo, è quello che ci salvava la vita dalle fiere quando vivevamo nelle grotte, che ci fa coprire quando fa freddo, che ci fa tenere per mano i nostri figli quando attraversiamo la strada. Attiviamo lo stento istinto verso le cose che possediamo: il fuoco, il cibo cacciato. Proteggiamo la nostra casa e la nostra auto con l’antifurto. Proteggiamo soprattutto i nostri soldi.
Per cui tutte le notizie che parlano di cose poco chiare che possono danneggiare la nostra salute o i nostri beni attirano come calamite la nostra attenzione e siccome quando seguiamo le nostre emozioni possiamo trasformarci in creduloni, ecco che cominciamo a credere che la polvere presente nell’aria contenuta nella boccetta del vaccino sia più dannosa del morbillo, che il covid-19 sia stato prodotto in un laboratorio negli USA per attaccare l’economia cinese ed europea e renderci più dipendenti da loro, che la Nasa spruzza nel cielo scie chimiche velenose e che la pandemia da coronavirus non è mai stata dichiarata dall’OMS ecc.

Cosa fare? Verificare sempre le affermazioni “rivelatrici”, che le fonti siano attendibili e chiare. Controllare su siti specializzati nello sbufalare le notizie come butaq e medbunker, usare la ragione e farsi domande sull’obiettivo reale di chi has critto l’articolo.

dr.ssa Luigina Pugno

psicoterapeuta Torino, ipnosi Torino, EMDR Torino